I ragazzi del 77
di Beatrice Nefertiti
sul blog LetterMagazine
13 febbraio 2012
Per me è stato come ritrovare il pezzo di vita che avevo dato per disperso
Un giorno qualunque di un anno di piombo. Cosa avete capito? Parlo del 2011, un anno qualunque del terzo millennio, un grano di quel rosario di tristezza che sto recitando sempre meno volentieri. Stavo cazzeggiando su internet tanto per passare il tempo e ho trovato la foto di una ragazza bionda, piccolina, magra, che monta la tenda su un prato. Mi è venuto un male, ero io. Luglio 1976, Gubbio, Umbria Jazz, i raduni giovanili degli anni Settanta, un pezzo del mio passato che non ero più sicura di aver vissuto veramente perché ero quasi convinta di essermelo inventato. Dopo tutti gli anni di lavoro, palazzacci, calci in bocca, deprivazione emotiva, disgregazione, sangue avvelenato, pensavo che quel ricordo fosse solo una fantasia autoconsolatoria creata per sopportare le mattine col vomito, le giornate spalle al muro a schivare le coltellate, le sere nascoste nella tana a bendare le ferite. A volte mi tornavano in mente gli anni dell’università a Bologna, gli amici, i concerti, i campeggi, e mi convincevo di aver sognato. Impossibile che ci fosse stato un tempo in cui ogni parola non veniva usata contro di me, in cui si stava insieme per il piacere di parlare, discutere, ridere, scazzarsi, o almeno senza volere in cambio il culo o il portafoglio. Mi dicevo “Tesoro, ti sei fatta troppe canne, la vita è sempre stata così, come adesso”.
Ho sfogliato tutto il sito, creato da Enrico Scuro, un fotografo trapiantato a Bologna dove era venuto a vivere negli anni Settanta per fare il DAMS, e ho trovato le prove che un’altra vita è stata possibile. Non mi ero fatta troppe canne, c’era anche la mia foto con la tenda a Umbria Jazz la sera che cantava Sarah Vaughan, e a quanto pare non ero stata la sola a ritrovare un pezzo di sé stessa. Enrico aveva pubblicato sulla sua pagina di Facebook la foto di Dario Fo al convegno contro la repressione del settembre 1977 a Bologna e centinaia di persone si erano taggate, a dire“Io c’ero”. Per me è stato come ritrovare il pezzo di vita che avevo dato per disperso e di nuovo, miracolosamente, dopo più di trent’anni, non ero da sola a provare un’emozione. Enrico aggiungeva le sue foto, l’occupazione dell’università, le manifestazioni, l’11 marzo, Radio Alice, e i commenti si univano ai ricongiungimenti, alla commozione, ai ricordi, alle discussioni riprese come se fossero state lasciate la sera prima sui gradini di San Petronio in Piazza Maggiore o ai tavoli di un’osteria, di quelle osterie dove allora si passava la sera in quindici con una bottiglia e non si spendevano trenta euro per due dita di vino e un’oliva all’ascolana. La pagina di Enrico è diventata il posto dove andavo la sera e incontravo persone che non avevo mai visto nella vita cosiddetta “reale” ma con le quali avevo ritrovato quel “comune sentire” perduto con la laurea e l’ingresso nell’allegro mondo del lavoro.
Quando gli album sono diventati tre, con 600 foto on line, Enrico ha invitato tutti ad aprire i cassetti; a fine ottobre le foto raccolte erano 3200 e i commenti erano diventati racconti, storie personali, scherzi, battute, riflessioni e anche liti, nel perfetto stile della generazione più rompicoglioni che sia mai stata creata, come ha detto Pino Cacucci alla presentazione ufficiale del libro, a Bologna, il 17 gennaio di quest’anno. Sì, perché da questo zibaldone è nato un libro. Come sia venuta fuori l’idea io non me lo ricordo, qualcuno ha cominciato a dirlo come per scherzo, intanto noi continuavamo a commentare le foto con i nostri pensieri e i nostri ricordi così come venivano e nasceva questa coperta patchwork, questo splendido “rammendo collettivo della memoria”, come lo ha definito Marzia Bisognin, una compagna che insieme a Paolo Ricci ha collaborato con Enrico Scuro alla realizzazione di quest’opera collettiva. Mi si perdoni il termine “compagno”, so che non va più di moda e di questi tempi è considerato ridicolo e quasi dispregiativo, un residuato di un’epoca che si vuole buttare via perché dà fastidio, un rigurgito di quando lavoratori e studenti lottavano insieme per migliorare le proprie condizioni di vita e non l’uno contro l’altro per peggiorare quelle del vicino. Vorrei usare questa parola nel suo significato più innocente, di persone che stanno insieme, che mangiano insieme, che magari facevano insieme un’ora di fila alla mensa in piazza Verdi, che sono cresciute insieme, perché eravamo dei cuccioli e come a tutti i cuccioli piaceva giocare e stare insieme. In fondo siamo l’ultima generazione che ha passato l’infanzia nei cortili e che poteva passare da casa di un amico senza dover prima telefonare.
Come ogni libro che si rispetti, anche questo è stato diviso in capitoli: le camere in cui alloggiavamo da studenti, il Settantasette, Radio Alice, l’11 marzo, l’omicidio di Francesco Lorusso e la strategia di innalzare il livello dello scontro proprio a Bologna, una città che andava “punita” per la sua diversità. E poi Piazza Verdi, i concerti, i viaggi, il convegno di settembre… Il libro si apre con questa frase: “Siamo stati e adesso siamo”. Mi permetto di riportare il commento con cui inizia la prima narrazione: “Forse è difficile spiegare quello che eravamo, ma non impossibile. […] Siamo stati, ma il tempo è andato avanti e si è svelato e rivelato. Siamo stati ma adesso siamo. Siamo stati ma adesso siamo il risultato di quello che eravamo, la somma delle nostre emozioni, dei nostri sogni, delle nostre certezze”. Siamo stati ma adesso siamo. Almeno, chi c’è ancora. La nostra generazione voleva volare, ma a volte la cera delle ali si è sciolta. Qualcuno è stato vittima dell’eroina che proprio in quegli anni, e a mio parere non per caso, veniva immessa in modo massiccio sul mercato; qualcuno si è fatto anni di galera magari solo per aver tenuto delle armi in casa e non aver fatto i nomi, perché a noi insegnavano che era da infami fare la spia; qualcuno è morto di AIDS perché eravamo convinti di aver conquistato almeno la libertà del nostro corpo ma non era vero. Chi è rimasto ha cicatrici di ferite guarite con fatica, o tagli ancora aperti e sanguinanti. Per i ragazzi di questo libro non è stato facile entrare negli anni Ottanta e nel peggio che è arrivato dopo, adattarsi al nuovo che è avanzato, prendere atto che le cose in cui credevamo erano solo favole, perdere l’identità collettiva. Come dice Gianni in un commento, “La paranoia e i comportamenti autodistruttivi sono venuti col manifestarsi dell’impossibilità del sogno e la conseguente batosta esistenziale”.
Ci sono foto di manifestazioni così affollate che un ragazzo nato vent’anni fa si potrebbe chiedere “Ma dove le hanno scattate? Al Cairo? Però è strano, ci sono anche le donne…”. Già, le donne. Il movimento femminista è il mio ricordo più vivo e l’eredità a cui sono maggiormente grata. Riconosco il privilegio di aver potuto vivere la libertà di quegli anni, io femmina, figlia di un operaio, cresciuta in una cittadina di provincia chiusa e tradizionalista. Se fossi nata dieci anni prima avrei fatto solo le elementari, al massimo l’avviamento, e a quattordici anni sarei finita in fabbrica o a lavare teste da una parrucchiera finché il primo cretino di passaggio mi avesse messo incinta, e con un po’ di fortuna ci sarebbe stato il matrimonio riparatore e una vita a crescere bambini e a prendere botte dal marito. Se fossi nata dieci anni dopo, mio padre operaio non avrebbe fatto sacrifici per farmi prendere una laurea universalmente nota come inutile, coi lavori “usa e getta” non sarei mai riuscita ad avere la mia indipendenza economica e sarei rimasta imprigionata nella casa dei miei. Per una volta nella vita ho avuto fortuna, sono cresciuta negli anni della speranza, dello Statuto dei Lavoratori, del sogno dell’operaio che vuole il figlio dottore, e con un po’ di sforzo anche la figlia, se manca l’erede maschio. Con la scusa dell’università ho abbandonato la famiglia e ho imparato a reggermi sulle mie gambe, in quegli anni era ancora possibile trovare un “lavoro fisso” e anche se faceva schifo non dovevo più chiedere ai miei il permesso per respirare. Dice Nadia in un commento “Dietro ai collettivi femministi et similia, si sperava di saltare con un solo balzo migliaia di anni di cultura maschilista e di posizione femminile, per il semplice fatto di parlare di “liberazione sessuale”, di “compagni” e di “convivenza” di cui ci hanno ringraziato generazioni di maschi mammoni”, però noi ragazze abbiamo avuto la possibilità di stare lontano da casa e di imparare a tenere la testa sulle spalle e a rendere conto dei risultati, pena il ritorno forzato dal padre padrone che avrebbe tagliato i finanziamenti. In quegli anni ho potuto dare sfogo pienamente alla mia natura nottambula, a Bologna si era ancora sicure di notte, ma nel dubbio io giravo in bicicletta sotto i portici a fanale spento. Per una miope era un gran risultato, specialmente la volta in cui centrai in pieno un tale in mezzo alle gambe perché non lo avevo visto, e lo lasciai a tenersi le palle in mano mentre scappavo via con scatto da cronometrista.
E dopo? Come dice Anna, “Abbiamo commesso un grandissimo sbaglio, abbiamo abbandonato il campo, non abbiamo saputo difendere le conquiste”. Tante volte non abbiamo saputo difendere nemmeno noi stessi. E Valerio: “Stavano emergendo nuove soggettività antagoniste come i “non garantiti” i quali oggi non sono altro che i soggetti giovani e meno giovani precipitati dalle politiche neoliberiste di centrodestra e centrosinistra nel precariato sociale. Avevamo capito che era in corso l’inizio della globalizzazione, come la chiamiamo oggi. L’autonomia non era solo pistole. Per questo ci hanno fatto fuori”. Non voglio entrare nelle analisi storiche e sociologiche per le quali tanti altri sono molto più bravi di me, la mia è solo una piccola recensione personale, necessariamente di parte, perché io c’ero, e ringrazio il destino di esserci stata. Eravamo la generazione che voleva volare e abbiamo vissuto l’ultima rivoluzione romantica. Le foto di Enrico e quelle saltate fuori dai cassetti sono da vedere, non le posso descrivere, ma ho scelto alcuni commenti. Pani: “Ricordo quegli anni con molta intensità, pieni di scoperte e di passioni, allegria e dolore mescolati, sicuramente VIVI”. Orlando: “Mai abbiamo avuto questi sorrisi… e dove è finita tutta quella vita?”. Wolmer: “A pensarci adesso stavo così bene e non lo sapevo”. Paolo: “Perché eravamo così: una semplice e piccola comunità umana. Ma eravamo “ancora” una comunità: con le nostre ricchezze, le nostre miserie, le generosità, le meschinità, le creatività, le morbosità… il bello e il brutto”. Giancarlo: “Si usciva di casa al mattino e si pensava “chissà cosa succederà oggi”. Come quando si è in viaggio, da esploratori. Sensi aperti. E la sensazione di non essere soli. Esattamente il contrario di ora”. Sara: “Pur con tutte le contraddizioni, le paranoie, avevi davvero la sensazione di essere dentro la tua vita”. La spensieratezza, il sapersi ridere addosso, le scritte sui muri, “Mettete più crema nei krapfen”, “Comitato autonomo Ridi che la Mamma ha fatto i Gnocchi”, “Decreto lo stato di felicità permanente”, “Dite a Lama che l’amo”, le assemblee, il drago, via Belle Arti decorata dagli studenti dell’Accademia, i murales di via Zamboni. Come dice Giovanni, “dalla “creatività al potere” alla “finanza creativa”, e invece delle streghe son tornate solo le mignotte”. Una risata ci seppellirà, ci ha seppellito la merda.
Chiudo con Dom Ildefonso: “È come un marchio a fuoco, impossibile da cancellare. Ma attenti alla nostalgia dei bei tempi andati: potrebbe ritorcersi contro e il sol dell’avvenir al massimo ci potrebbe, oggi, abbronzare”. Non dimenticatevi che siamo anche la generazione illustrata da Andrea Pazienza, e come dice Augusto: “Cosa abbiamo da dare a tutti quelli venuti dopo di noi? L’integrità di non esserci fatti tritare da chi voleva obbligarci a stare o con lo stato o con le BR”. Un libro straordinario, per chi c’era, per chi avrebbe voluto esserci, per chi vuole provare a capirci.
I ragazzi del ’77
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