I ragazzi del ’77, generazione non perduta
Un libro nato su Facebook riscopre volti e desideri travolti dagli anni di piombo
di Michele Smargiassi
Repubblica – Ed.Bologna
3 dicembre 2011
E’ un album di famiglia, perché negarlo. Sfogliato con gli stessi commenti eccitati e inteneriti: «Che ricordi!», il dito sulle foto, «Com’eri bella!». Ma una famiglia strana, senza padri e senza figli, vissuta il breve tempo di un desiderio: una primavera, un’estate, un cupo autunno. Enrico Scuro ce l’ha fatta. I ragazzi del ’77 è un libro: prima era un vaso di Pandora pieno di sentimenti contrastanti, un grumo di ricordi rimpianti rabbie dolcezze pronti a esplodere.
Ed esplosero quando il 5 febbraio scorso Enrico, che fu “il fotografo del Movimento”, mise su Facebook un po’ del suo archivio, tra cui una foto di piazza VIII agosto gremita durante il “Convegno contro la repressione” del settembre ’77. Gli arrivarono decine di messaggi «c’ero anch’io, eccomi li!». Il vaso esplose, piovvero foto, migliaia di foto. Si svegliava dal letargo la generazione che si era chiusa in un cassetto. Il libro di Enrico Scuro (con Marzia Bisognin e Paolo Ricci, edito da Baskerville-Sonic Press, in libreria il 15 dicembre) è la storia di un incontro, trentacinque anni dopo, sulle autostrade di Internet e solo grazie a quelle. Scambiarsi foto e brandelli di memoria, “taggarsi” nelle foto per riconoscere e farsi riconoscere, aggiungere tasselli: non sarebbe stato possibile altrimenti. Cinquecento pagine, centinaia di persone, milleduecento fotografie: un libro dei viventi, un censimento emotivo di anime sperdute e ritrovate. Ma non basta dire questo. Questo varrebbe per qualsiasi generazione. Ma era quella generazione. Quella dell’11 marzo, «il venerdì della nostra vita», delle barricate, di Radio Alice, dell’assassinio di Lorusso e dei carri armati di Kossiga in via Zamboni. Sì, era quella. Generazione perduta, si è detto: travolta dall’ubriacatura militarista, o dalla livella dell’eroina. Le generazioni durano vent’anni, quella ne durò due. Invece no, non è così, non è solo così. Ha fatto bene, Enrico, a costruire il suo libro rispettando il modo in cui è nato: sono i messaggi Facebook a raccontare la storia, scorrendo come un fiume fra le immagini, con le loro emozioni, i rimpianti non trattenuti, le nostalgie. Mancai! reducismo: non v’aspettate un “c’eravamo tanto armati”. C’era qualcosa di più importante da recuperare.
Francamente, le pagine più belle non sono quelle che raccontano i momenti pubblici; terribilmente tali, del marzo, del settembre, le barricate e le assemblee fumose e le piazze fumogene, fotografate da Scuro che era in fondo un reporter, militante sì ma professionista. Sono le fotografie private, quotidiane, mai viste, piccole auto-cronache uscite da cassetti lontani, insospettabilmente belle, originali, raffinate perfino, rilassate sempre, autentiche, ritornate a casa dalla diaspora degli ex ragazzi dispersi lontano dalla città che li aveva riuniti proprio allora e proprio lì. Le stanze da fuorisede pre-lkea, coi mobili comprati all’Antoniano, il riso integrale, le giacche blu della Montagnola dei ragazzi, gli zoccoli col pelo dentro delle ragazze, i gatti, i concerti dei Gaznevada, le vacanze col pullmino Volkswagen in Nepal o alle isole Orkney, i pasti malmangiati nelle osteriole, le borse di paglia, ma soprattutto ritratti, di gruppo e solitari, e su quei visi una «creatività fisiognomica», un desiderio, il sogno di una cosa.
C’era qualcosa prima dell’autunno del ’77, che si ribella ancora alla gabbia di piombo che le cadde addosso. «Je ne regrette rien», se non è un libro di pentimenti né di ripensamenti c’è un motivo: chi lo scrive c’è stato anche dopo. Non morì sulle barricate quella generazione: in tanti «trovarono il modo di ricomporre un senso della realtà». Purtroppo, «non siamo più riusciti a farlo collettivamente».
I ragazzi del ’77
UNA STORIA CONDIVISA SU FACEBOOK