Il patchwork del ’77 attraversa il web
di Carlo Infante
l’ Unità
12 gennaio 2012
I ragazzi del ’77
UNA STORIA CONDIVISA SU FACEBOOK
Il patchwork del ’77 attraversa il web
di Carlo Infante
l’ Unità
12 gennaio 2012
«I Ragazzi del ’77», racconto per immagini di una generazione
di Paolo Merlini
La Nuova Sardegna
11 gennaio 2012
Un volume molto bello che rappresenta anche un tentativo riuscito di trasferire su carta, con sequenze efficaci, i commenti alle immagini, con nome e cognome dell’ autore, conservando il sapore dell’istintività che spesso tali post hanno su Fb
I ragazzi del ’77
di Massimo Marino
sul blog Doppiozero.it
4 gennaio 2012
Vedi scorrere tutti i volti di quell’anno, il 1977 a Bologna, le case, le manifestazioni, l’università occupata, l’immaginazione al potere e le fiamme degli scontri. I ragazzi del ’77. Una storia condivisa su Facebook ora è un librone di oltre 500 pagine con 1272 fotografie. Ma si è formato giorno per giorno, riannodando sul più diffuso social network i fili di una memoria che appariva dispersa se non cancellata.
Tutto è iniziato il 5 febbraio di quest’anno, quando Enrico Scuro, il fotografo di quel movimento ormai lontano, ha pubblicato sul proprio profilo Facebook la foto dello spettacolo di Dario Fo che concluse il convegno contro la repressione del settembre 1977. Chiudeva, quella manifestazione europea, l’anno iniziato con le occupazioni delle università, culminato con la drammatica uccisione da parte di un carabiniere dello studente Francesco Lorusso in via Mascarella a Bologna e con l’espugnazione della barricate della cittadella universitaria con gli autoblindo inviati dal ministro degli interni Kossiga mentre un pianoforte suonava Chicago.
Dario Fo recitava davanti a un mare di persone, i cui volti nella foto si distinguevano appena. Eppure in molti iniziano a taggarsi sull’immagine. A dire: io c’ero. E Scuro pensa bene di aprire gli archivi. Pubblica, sempre su Facebook, in un paio di settimane, tre album di fotografie. Si scatenano i commenti, le discussioni, i “mi ricordo” ma anche i tentativi di storicizzare o di provare a riconoscersi per ritrovarsi a distanza di tempo. Si assegnano nomi a facce, si ricostruiscono i cognomi e le provenienze di incontri intensi, durati spesso solo una stagione. Si prova a riportare giovani volti barbuti o riccioluti, fruscianti gonne a fiori con zoccoli a persone diventate adulte, che magari oggi vivono lontane o sono morte. Si scopre che quel Mario Chessa che sventola una bandiera rossa al vento è diventato Dom Ildefonso dei padri olivetani della basilica di Santo Stefano. Si ritrovano amici perduti, gente andata via da Bologna da anni. Si ricostruiscono percorsi.
Il gioco continua. Dai cassetti di questa comunità virtuale che si ritrova iniziano ad arrivare altre foto, che contestualizzano i momenti più pubblici con squarci di vita privata di anni in cui si gridava per le strade: “il privato è politico”.
Oggi sul profilo di Scuro trovate tredici appendici. Si è formato, subito, già in quel febbraio, un gruppo intitolato “I ragazzi del ‘77”, col proposito di comporre un libro che desse un filo al lavoro di memoria. E ora questo “romanzo Facebook” è arrivato in libreria, grazie a due piccole case editrici bolognesi, Baskerville e Sonic Press, fondate rispettivamente da Maurizio Marinelli e Oderso Rubini, due che in quell’anno c’erano. È un volume rettangolare di grande formato che raccoglie moltissimi degli scatti pubblicati in rete. Il testo è fatto da parte dei commenti apparsi sotto le foto, dalle accese discussioni che si sono innescate online. Non capisci, al primo sguardo, se narra l’epopea di una comunità reale, del passato, che si incontrava tutti i giorni all’università, nelle case, nelle manifestazioni, in piazza, a fare musica, a discutere, ad amoreggiare, a sognare (quella che descrive Enrico Palandri in Boccalone e quella raccontata dal libro collettivo Bologna marzo 77… fatti nostri), o se è una cartina al tornasole di una comunità virtuale di oggi, che guarda al passato con sentimenti contrastanti.
Nostalgia ce n’è, indubbiamente, per la gioventù, per ideali che gli anni successivi sembrano avere appannato, contrastato, misconosciuto. C’è autocompiacimento, per “come eravamo belli”, per “come erano belle le ragazze” (“Guardandosi oggi indietro, è vero che eravamo tutti e tutte molto belli e forse ciò che ci rendeva tali – non sono certa, ma mi piace pensarlo – è ciò che avevamo appunto in testa” scrive Gianna Curti Clech, il volto che scatena il discorso).
C’è come un sottaciuto effetto di inabissamento, per cui poco si parla di ciò che quegli anni hanno generato, di cosa si è stati dopo (Qualcuna confessa: “Non ho parlato alle mie figlie di quello che ero, di ciò che pensavo: credo di averlo trasmesso attraverso il mio modo di fare, di essere”). Si tende a ricordare, a ritrovare pezzi e volti del proprio passato. Poi, a poco a poco, dall’effetto ricostruzione si passa a un interrogarsi su cosa ha spezzato quell’esperienza, su cosa si è oggi, saltando quasi a piè pari gli anni di mezzo, la storia della sconfitta degli anni ’80, delle trasformazioni del mondo.
Certo, si ricordano i principi di giustizia sociale e libertà che guidavano quel movimento. Si ripercorre la rivoluzione delle radio libere, che a Bologna ebbe quel formidabile laboratorio che fu Radio Alice, esperimento di comunicazione orizzontale, parole e musica in libertà, idee e pratiche che seducevano, interpretavano gli umori. Si ricorda la telefonata di un ascoltatore, che diceva: “Sono costretto a uscire di casa, perché se sto a casa accendo la radio, e dopo non riesco più a studiare..”. Scrive Marzia Bisognin, che fu arrestata quando la polizia chiuse la radio, dopo gli scontri: “…non conoscevo nessun altra di quelle voci. La ascoltavo sempre, di giorno e di notte… E man mano che quelle voci sono diventate persone conosciute, è diventato sempre più uno spazio intimo della vita, intimo e grandissimo al tempo stesso… un po’ come facebook!”
Nei commenti si riprende la vecchia disputa tra trasformazione rizomatica, che si sviluppa per contagio, per piccoli gruppi, per germinazione interiore, o lotta politica organizzata e magari dura. Si ricorda la fine di tutto, quando lo scontro con lo stato e il terrorismo chiusero gli spazi; quando sulla ricerca di libertà ed esperienze individuali, di “paradisi”, scoppiò come una bomba l’eroina.
Ma soprattutto nel libro si vedono volti, giovani, di altri tempi, stanze di studenti arredate con fantasia per mezzo di mobili raccogliticci, abbigliamenti composti in mercatini, invenzione di mestieri improbabili per tutelare la propria libertà e autonomia, case come teatrini della psiche, come set di autorappresentazioni in cui ci si combina da dandy, esteriorizzando le ambizioni culturali, spesso distanti dalle condizioni sociali “non garantite”.
Scorrono eventi politici e collettivi e fatti privati, le manifestazioni, le barricate dopo l’uccisione di Lorusso, gli incarceramenti, ma anche il teatro di strada, i clown che danno l’assalto al palazzo del Comune, i murales, la banda che apriva cortei e feste e che andò anche in Germania. Si narrano i viaggi, Umbria Jazz e l’India, gli affetti, la riscoperta del corpo e della tenerezza dopo gli anni della rigida militanza politica, il femminismo, i fumetti di Scozzari e di Pazienza, la musica dei Gaznevada e degli Skiantos. Scorre quello che è stato chiamato “Carnevale a Bologna”, riferendosi al Carnevale come crogiolo e rovesciamento sociale di cui in quegli anni parlavano Camporesi, Scabia, Celati, sulle orme di Bachtin. Fino agli anni di piombo. Fino forse al compimento degli studi e all’entrata nelle necessità della vita adulta.
Si racconta di qualcuna, Annarosa, che si trasferì a Roma prima di quel 1977 e poi tornò varie volte a Bologna, della bellissima autista tuttofare dei Gaznevada (“una bellezza fatta di autenticità”, si legge in un commento), della casa aperta di Bifo, il leader, e di altre, disperse in tutta la città, in via San Vitale, via Castiglione, via Fondazza. Di quella in Santo Stefano dove era vissuto, con Giovanni Lindo Ferretti e altri di Reggio Emilia, Alceste Campanile, che sarebbe stato assassinato nel 1975. Di molte altre. Qualcuno scrive: “Fu un periodo unico. Poi la nebbia totale”.
Nel gioco del ricostruire insieme, Marisa Di Mario si chiede: “Ma quella non sono io?”, e Giuli Idini risponde: “Potrei essere anch’io… anche se non ero a Bologna! Il bello di queste foto è proprio questo: chi ha vissuto quegli anni si riconosce in ogni scatto, anche se non c’è realmente!”.
Si vedono due giovanissimi Enrico Palandri e Claudio Piersanti, che sarebbero diventati scrittori. Gli amici cagliaritani Tognolini (oggi affermato autore per ragazzi) e Cabiddu (regista). Scozzari, Pazienza, Maurizio Torrealta (oggi giornalista per Rai News 24, senza più barba e con pochi capelli), tutti quelli di radio Alice che innalzano una simbolica antenna in piramide umana in piazza Maggiore, feste, bambini che oggi hanno trent’anni, come Amaranta, la figlia di Luciano (che vive in Centroamerica) e Marzia. E poi celerini, macchine ribaltate, le mani ironicamente alzate in segno di resa alla manifestazione del Pci contro la violenza seguita all’assassinio di Lorusso, il funerale dello studente…
Sembra a volte, lo dice qualcuno in un post, di sentire perfino gli odori di quel periodo, quello penetrante e dolciastro di patchouli, ma anche quello di sudore o di “erba”. E ogni tanto, nel gioco dei riconoscimenti, cade il sasso: lei, Cinzia, è morta, nel 1991. Chiara si è uccisa. Lui se l’è portato via l’Aids.
Interviene qualcuno che quegli anni non li ha vissuti: “Forse potrei dire io, nato nel ’79, da quali fonti ho appreso quel poco che conosco sui ragazzi del ‘77”, scrive Diego Pipi, e elenca gruppi musicali, Area, Stormy Six, Gaznevada, Confusional Quartet, vecchi numeri di “Frigidaire”, filmati reperibili su YouTube, tra cui il documentario Nudi verso la follia di Angelo Rastelli, da immagini di Alberto Grifi. E conclude: “Il mio è un punto di vista ricavato dalle non molte informazioni a me disponibili, ma credo che sia interessante non solo per capire ‘chi eravate’, ma anche per capire come vi vedono i vostri figli”.
Ai figli è dedicato un capitolo, come alle osterie dove ci si trovava, Trebbi, Picci, la Vigna… (Le rivoluzioni affogano negli spezzatini), alle gonne lunghe, ai viaggi, a Bologna rock, al raduno poetico di Castelporziano, al concerto di Patti Smith, all’orgoglio omosessuale. Tutto quello che è avvenuto, in quella comunità dai confini mobili, tra il 1976, quando nasce Radio Alice, e il 1978 viene documentato, insieme ai nomi di chi ha portato fotografie o memorie, e quest’ultimo elenco riempie quattro fitte pagine.
Si potrebbe dire che la chiave di questo volume è il narcisismo generazionale, la riscoperta, oggi, di un’accentuata valutazione del sé che era stata depressa dal crollo delle promesse, dei sogni, dell’autostima in fondo. Quella del ’77 è stata una delle ultime tornate di baby boomers, già sull’orlo dell’abisso: c’era stata la prima crisi petrolifera e qualcuno iniziava a parlare di “non garantiti”, non immaginando quanto sarebbe diventata profonda e devastante la precarietà in anni successivi. Quei “ragazzi del ’77” credevano (credevamo, perché chi scrive era di quelle tribù) di cambiare il mondo e pensavano di essere l’ombelico di quel mondo. O almeno volevano diventarlo, un qualche centro, nel loro ambito.
Col ’77 inizia a vacillare la fiducia nelle sorti progressive propria del novecento (anche le certezze del socialismo, con la rottura della sua vetrina buona bolognese): i crolli sono ancora lontani, ma dietro l’angolo. Inizia, proprio tra i giovani protagonisti di questo libro, lo scontro tra militanza politica proiettata verso un progetto futuro e cura del sé e del gruppo dei vicini, che si sarebbe detta, qualche anno dopo, con qualche spostamento e in altri contesti, “edonismo”. Inizia la nostra postmodernità.
Nel libro tutto questo riemerge, anche se per l’origine degli scritti (dei post), Facebook, non si arriva mai a un pieno approfondimento. È evidente la voglia di persone che hanno ormai hanno attraversato le delusioni degli anni di riannodare fili. “Ci si è ritrovati in piazza, per così dire, per fare un rammendo collettivo alla memoria”, scrive Marzia Bisognin, che con Paolo Ricci ha aiutato Scuro a comporre il volume. E la piazza a cui si riferisce non è più quella delle manifestazioni, degli scontri, dell’ironia, degli spettacoli, degli incontri e dell’affettività diffusa di tempi ormai lontani, ma quella nuova, virtuale, dove tutti navighiamo, dove si può contrabbandare la propria immagine con una foto di trent’anni fa. Là, con Facebook, cercano di ritrovare storie perdute, giocandoci, ironicamente, con la nostalgia. Anche con quel titolo, che evoca “I ragazzi del ‘99”, i reduci vittoriosi loro, quelli del ’77 con poche vittorie da celebrare. Ironia canaglia!
Traspare nostalgia, certo, ma anche la voglia di chiedersi: “Quanti eravamo allora! Perché eravamo là? Cosa ci muoveva? Dove ci troviamo oggi?”. Posta, nelle prime pagine, Dom Ildefonso Chessa: “Eravamo sicuramente (senza smentite) giovani, adolescenti e pieni di immaginazione, di voglia di fare. La rivoluzione ci sembrava dietro l’angolo, anzi dietro qualsiasi ostacolo che incontravamo. Siamo stati, ma il tempo è andato avanti e si è svelato e rivelato. Siamo stati ma adesso siamo. Siamo stati ma adesso siamo il risultato di quello che eravamo, la somma delle nostre emozioni, dei nostri sogni, delle nostre certezze. Non amo la nostalgia! Potrebbe diventare una brutta prigione”. E Paolo Ricci, nell’ultimo capitolo, suggella: “Credo che il lavoro di questo momento sia proprio cercare di capire quel che della nostra esperienza di quegli anni era davvero buono, succoso, vitale, separarlo dagli errori e dagli orrori, e portarlo nuovamente alla luce”.
Si parte da questo documento storico e antropologico di quando Bologna, la supposta capitale del comunismo democratico, fu l’epicentro di un esperimento politico ed esistenziale vitale e controverso. Si ricomincia da questo romanzo – Facebook, atlante di facce, costumi, rabbie, progetti di un passato cancellato troppo in fretta dalla storia, dalle rughe sul viso, dalle delusioni del cuore.
La generazione non perduta
di Michele Smargiassi
sul blog Fotocrazia-la Repubblica.it
21 dicembre 2011
Volevano seppellire il mondo con una risata, furono seppelliti dal triste metallo delle P38. Ma sono resuscitati, con un sorriso di indulgenza e di affetto, grazie alla leggerezza di Internet. I ragazzi del ‘77 ci sono ancora, forse qualcuno sarà finito in banca, per dirla con Venditti, ma si sono salvati, in tanti, dal fumo delle barricate. E si sono ritrovati in piazza: la piazza virtuale di Facebook, per una volta non il solito luogo delle chiacchiere adolescenziali.
Il libro I Ragazzi del ‘77 che Enrico Scuro mi ha appena portato in redazione sembra un album di famiglia: oltre milleducecento fotografie, facce, corpi di ragazzi, nomi, date, commenti eccitati e inteneriti: “Che ricordi!”, pagine sfogliate col dito sulle foto, “Com’eri bella!”. Ma è una famiglia strana, senza padri né figli, vissuta il tempo d’un desiderio: una primavera, un’estate, un cupo autunno.
Non è però ingenua l’operazione di Enrico. È un grumo di ricordi rimpianti rabbie dolcezze quello che esplose il 5 febbraio scorso, quando lui, che nella Bologna della rivolta era “il fotografo del Movimento”, mise su Facebook un po’ del suo archivio, tra cui la foto di una piazza gremita durante il convegno “contro la repressione” del settembre ‘77, che segnò la rottura fra lo spontaneismo dell’ala creativa e il militarismo degli ormai-clandestini. Un’operazione di documentazione, pensava Enrico. Invece, con suo stupore, gli piovvero sul sito decine, poi centinaia di messaggi taggati “c’ero anch’io, sono quello lì!”.
Aprì una pagina dedicata: arrivarono altre foto, altre migliaia di foto. La generazione che si era chiusa in un cassetto. Il libro che ora Scuro ne ha ricavato (con Marzia Bisognin e Paolo Ricci) è un cortocircuito visuale che scavalca trentacinque anni di ciascun-per-sé, grazie alla possibilità di ritrovarsi a distanza, scambiarsi foto e memorie, di “taggarsi” per riconoscere e farsi riconoscere.
L’album di una generazione non qualsiasi: quella di Radio Alice, di Andrea Pazienza, degli “Indiani metropolitani”, ma anche dell’11 marzo, “il venerdì della nostra vita”, dell’assassinio di Francesco Lorusso, delle barricate, dei carri armati di Kossiga all’Università. Generazione perduta, si è detto. Invece, ritrovata. Scuro ha costruito il libro rispettando il modo in cui è nato: sono i messaggi Facebook a raccontare la storia, scorrendo come un torrente in piena fra le immagini. Un po’ di nostalgia, ma poco reducismo: niente “c’eravamo tanto armati”. C’era qualcosa di più importante da recuperare.
Francamente, le pagine più belle non sono quelle che raccontano i momenti pubblici, terribilmente tali, del marzo, del settembre, le barricate e le assemblee fumose e le piazze fumogene, fotografate da Scuro che era in fondo un reporter, militante sì ma professionista. Sono le fotografie private, quotidiane, mai viste, piccole auto-cronache uscite da cassetti lontani, insospettabilmente belle, originali, raffinate perfino, rilassate sempre, autentiche, ritornate a casa dalla diaspora degli ex ragazzi dispersi lontano dalla città che li aveva riuniti proprio allora e proprio lì. Fotografie che raccontano un’altra storia e cambiano anche quella che le foto più dure e drammatiche sembravano raccontare.
Le stanze da fuorisede pre-Ikea, coi mobili comprati all’Antoniano, il riso integrale, le giacche blu del mercatino della Montagnola dei ragazzi, gli zoccoli col pelo dentro delle ragazze, i gatti, i concerti dei Gaznevada, le vacanze col pullmino Volkswagen in Nepal o alle isole Orkney, i pasti malmangiati nelle osteriole, le borse di paglia, le pance delle giovani mamme, ma soprattutto ritratti, di gruppo e solitari, e su quei visi una “creatività fisiognomica”, un desiderio, il sogno di una cosa.
C’era qualcosa prima dell’autunno del ‘77, che si ribella ancora alla gabbia di piombo che le cadde addosso. Je ne regrette rien, se non è un libro di pentimenti né di ripensamenti c’è un motivo: chi lo scrive c’è stato anche dopo. Non morì sulle barricate quella generazione: in tanti «trovarono il modo di ricomporre un senso della realtà». Purtroppo, «non siamo più riusciti a farlo collettivamente».
(Parti di questo articolo sono uscite su La Repubblica, cronaca di Bologna, e su Repubblica Sera, edizione tablet).
di Massimo Marino
Corriere della Sera – Ed. Bologna
17 dicembre 2011
Non capisci se è l’epopea di una comunità reale, del passato, o la cartina al tornasole di una comunità virtuale, di oggi. Da due giorni è arrivato nelle librerie I Ragazzi del ’77, un libro di più di 5oo pagine, con 1272 foto, tantissime didascalie che «taggano» i volti di quell’anno di rivolte, ferite, lutti e creatività, e molti pezzi scritti oggi. Il suo autore è Enrico Scuro, il fotografo di quel movimento ormai lontano. Lui, di questo oggetto, dice semplicemente; «E’ qualcosa che non esisteva ancora». Probabilmente è il primo «libro Facebook»: non solo perché tutti i materiali, foto, nomi, commenti, si sono accumulati in pochi mesi sul suo «profilo». Marzia Bisognin, collaboratrice di Scuro per l’edizione, scrive: Ci si è ritrovati in piazza, per così dire, per fare un rammendo collettivo alla memoria».
E la piazza a cui si riferisce non è quella delle manifestazioni, degli scontri, dell’ironia, degli spettacoli, degli incontri e dell’affettività diffusa di tempi ormai lontani ma quella nuova, virtuale, nella quale tutti navighiamo e dove alcuni cercano di riannodare fili spezzati. Scrive l’altro collaboratore del libro, Paolo Ricci, uno dei fondatori di radio Alice: «A guardarle oggi, queste foto “antiche”, ci raccontano la Storia di una volontà di mantenere fede a un principio comune che sta alla base e tiene insieme quel raggruppamento eterogeneo che abbiamo sempre chiamato “il movimento”. Un principio vitale, che certamente si declina in un infinito senso di libertà, in un mai appagato bisogno di giustizia».
Questo viaggio nasce nel febbraio scorso, quando Enrico Scuro pubblica su Facebook una foto dello spettacolo di Dario Fo che concluse il convegno contro la repressione nel settembre del 1977. Si vedono il comico in piazza VIII Agosto e una miriade di teste. In tantissimi iniziano a taggarsi, come a dire: «Io c’ero». Allora Scuro pubblica altre foto, varie centinaia. E iniziano i commenti le discussioni accese. Lo scandaglio nella memoria. Traspare la nostalgia, certo, ma anche la voglia di chiedersi: «Quanti eravamo allora! Perché eravamo là? Cosa ci muoveva? Dove ci troviamo oggi?». I «taggatori» ricostruiscono faticosamente nomi dimenticati, situazioni lontane, cercando di interpretarne il senso. Si cercano i dispersi e si scopre, magari, che quel Mario Chessa con la bandiera rossa al vento è diventato Dom Ildefonso dei padri Olivetani di Santo Stefano. Si fa il conto dei morti. Si ribadiscono posizioni e scelte di allora, cercando di dimostrare che non sono state dimenticate. Si sfoga, pure, il narcisismo depresso di quell’ultima generazione di baby boomers prima di varie crisi. Arrivano a Scuro altre foto, tirate fuori dai cassetti. Immagini e parole vanno a ricomporre un pezzo di storia, il ritratto di una generazione colta nello slancio del sogno e della rabbia che si scontra con la realtà in modi differenti.
In rete si accumulano album su album. Narrano la fondazione di Radio Alice, le manifestazioni e le feste, l’occupazione dell’Università, l’uccisione di Francesco Lorusso, gli scontri, gli incarceramenti, le proteste durate vari mesi, ma anche la musica, il teatro di strada, i murales, i viaggi, Umbria Jazz e le feste di parco Lambro, l’India e il Marocco, gli affetti, i riccioli, gli zoccoli, le gonne a fiori, il femminismo, le case porti di mare e luoghi di esperienze altrettanto importanti di quelle politiche, i fumetti di Scozzari e Pazienza, la musica dei Gaznevada e degli Skiantos. Fino alla conclusione di tutto, dopo il sequestro di Aldo Moro, l’accentuarsi dello scontro tra stato e terrorismo, l’irruzione dell’eroina Forse fino al compimento degli studi e all’entrata nelle necessità della vita.
Quel «romanzo» collettivo online ora è stato trasferito sulla carta, grazie a due editori bolognesi, SonicPress e Baskerville. Il libro circoscrive gli anni a quelli dal 1976 al 1978, quando Bologna fu comunque centro di un esperimento politico ed esistenziale, vitale e controverso. Scrive Dom Chessa, in un post pubblicato nel capitolo di apertura: «Eravamo sicuramente giovani, adolescenti e pieni di immaginazione, di voglia di fare. La rivoluzione ci sembrava dietro l’angolo … Siamo stati, ma il tempo è andato avanti e si è svelato e rivelato … Siamo stati ma adesso siamo il risultato di quello che eravamo, la somma delle nostre emozioni, dei nostri sogni, delle nostre certezze». Non importa se i capelli si sono incanutiti, se le facce di ragazze e giovanotti si sono coperte di rughe, i cuori di delusioni. Nel capitolo finale, Ritorno al futuro, dopo un cammino accidentato dai dubbi e illuminato dalla voglia di ritrovarsi, Ricci scrive: «Credo che il lavoro di questo momento sia proprio cercare di capire quel che della nostra esperienza di quegli anni era davvero buono, succoso, vitale, separarlo degli errori e dagli orrori, e portarlo nuovamente alla luce». Oltre la nostalgia.
Il 77 secondo il fotografo Enrico Scuro
intervista di Cristiano Governa
Il Fatto Quotidiano.it – Emilia-Romagna
15 dicembre 2011
“Nessuno di noi pensa che la sua vita sia finita”. Termina così, chiarendo immediatamente il taglio gioioso e sbarrando la strada a mielose nostalgie, il volume di Enrico Scuro, fotografo di riferimento del “movimento”, I ragazzi del ’77 (Baskerville/Sonic Press), che verrà presentato il 16 dicembre alla libreria Ambasciatori. La risposta a tutte le domande che istinto e memoria reclamano è sì, ci sono tutti; ci sono i luoghi, i personaggi, l’università, la polizia, i cortei, i dolori, le vittorie e c’è anche un drago.
Ma Scuro (in collaborazione con Marzia Bisognin e Paolo Ricci) al fianco della Storia ha selezionato e mostrato anche le storie di tutti; le facce, le mattine, i vestiti, i corpi nudi, le sigarette, le poltrone, i tetti delle persone che hanno vissuto quegli anni a Bologna. Un volume fotografico dunque? Non solo, dato che ci sono anche tante parole. Un romanzo commentato da immagini? Non proprio. Un’autobiografia collettiva? Quasi. Letteratura 2.0, forse è la definizione più esatta.
Per acclimatarci subito al clima ’77 basta domandare da quale idea nasce questo volume…
“Non c’è un’idea. Io credo nel caos primordiale e sotto l’egida di tale caos è nato questo libro”.
Scopriamo allora il piano del caos..
“A Natale dello scorso anno sono entrato a far parte della comunità di Facebook e ho inziato a postare le mie fotografie di quel periodo. Alcuni di coloro che erano ritratti nelle foto hannno subito inziato a commentarle. Dopo un paio di settimane quelli che invece non si sono riconosciuti nelle immagini hanno detto: “Ehi io qua non ci sono, ecco una mia foto di quel periodo… Così facendo siamo arrivati a comporre un mosaico di circa 1000 fotografie mie più 2400 fotografie inserite da altri utenti”.
A quel punto di solito qualcuno dice “Perchè non ne facciamo un libro?”
“Ed è andata esattamente così, però l’idea andava strutturata per bene perché nessuna forma consueta sarebbe stata adatta; un volume meramente di fotografie non andava bene, un libro di racconti nemmeno, mi sembravano tutte cose già fatte. A quel punto, se così posso dire, mi è venuto in mente di scattare una fotografia di quello che c’era su Facebook, di comporre 544 pagine con 1272 fotografie – e tantissimi commenti alle stesse – senza che ci fosse nemmeno una riga scritta da me. Sono 671 le persone che hanno scritto o mandato foto per questo libro”.
I testi dunque non sono altro che i commenti su Facebook alle foto selezionate…
“Esattamente, così come tutte le foto che ho scelto sono su Facebook anche tutti gli interventi scritti sono commenti alle foto presi da Facebook”.
Con quale criterio dunque hai fatto interagire queste foto e i loro commenti?
“Ho pensato cosa fosse questo lavoro, sono partito dalla natura stessa del progetto per dargli un’articolazione che ne rispettasse l’anima. La cosa che mi son detto è che questo non è un libro sul ‘77 ma un volume sui ragazzi che hanno fatto il ‘77, non mi limito a raccontare un’epoca ma mostro le storie di migliaia di persone in quell’epoca. In quest’ottica ho suddiviso il lavoro in capitoli – più tradizionali se vogliamo – che narrano gli eventi da un punto di vista storico, e in altri capitoli che io definirei antropologici che sono quelli di costume”.
Data la curiosa forma di interazione fra immagini e scritti questo è un volume che dove lo apri incomincia. Possiamo dire che il volume è una sfida anche sotto il punto di vista del linguaggio narrativo?
“Certamente, il volume ha un linguaggio “alla Facebook”, lo puoi navigare più che leggere. La nostra sfida era proprio questa. Per me Facebook è uno strumento e lo uso come voglio; attraverso di esso il mio materiale lo trasformo da reale a virtuale e dal virtuale lo rimetto su carta stampata, e ne faccio un volume che sembra un album delle foto di famiglia unito ai diari che scrivevamo da giovani, con l’appunto sotto la fotografia”.
Ogni volume fotografico è, da un certo punto di vista, un corpo a corpo col tempo, con lo scorrere degli anni e delle nostre vite. Che effetto ha avuto su di voi rivedervi in queste immagini?
“Ci ha fatto venire voglia di rivederci davvero, fisicamente, oltre quelle stesse immagini. E sin dal primo incontro, dopo 35 anni, sembrava fossero passati solo cinque minuti dall’ultima volta in cui abbiamo mangiato insieme. In tutti noi quello spirito è rimasto intatto anche dopo 35 anni. Abbiamo battuto il tempo”.
A volte si tende ad indentificare la storia del ’77 a Bologna attraverso alcuni volti noti mentre questo lavoro…
“Questo è il libro di tutti gli altri. Certo ci sono anche compagni e amici più o meno noti, ma non è solo attraverso di loro che ho voluto raccontare questa storia. Qua davvero ci siamo tutti, le nostre facce oggi sono note, meno note, assolutamente ignote”.
La tentazione di tirare le somme, di fare il punto su vittorie e sconfitte vi ha sfiorati?
“Direi che tutti insieme abbiamo fatto il punto, il volume inzia con un capitolo che s’intitola “Eravamo e adesso siamo” e si chiude con il capitolo Ritorno al futuro. Non c’è senso di sconfitta in questo volume. Certo, sotto un certo punto di vista hanno vinto coloro che ci stanno portando nel baratro attuale, ma alcune grande battaglie civili le abbiamo vinte, ma prima ancora le abbiamo poste. Questa è stata la nostra vittoria”.
Cosa non ti convince circa il racconto che l’opinione pubblica e la politica fanno di quel periodo?
“Far passare quegli anni unicamente come di piombo e basta. Questo è un errore. Il piombo c’è stato ma c’era pure una ricerca culturale nuova e una progettualità per il futuro – dall’urbanistica alla società al rapporto fra persone – assolutamente innovative. Non cercavamo soluzioni meramente politiche, ponevamo domande nuove per una vita nuova. La musica. Rivedendo alcune mie foto di Umbria Jazz, di parco Lambro molti mi hanno fatto capire che quell’atmosfera era stata un po‘ rimossa quasi dimenticata, molti mi scrivevano: “Sono talmente cambiato, è talmente diversa quella vita rispetto a quella che conduco oggi che quasi non mi ricordavo di averlo fatto. Se non avessi ritrovato le tue foto non mi sarei immaginato che anch’io ero così”.
Perchè il ’77 è stato in quel modo solo qua? Quel era lo stigma di unicità di Bologna?
“La fantasia, la creatività, la fame di felicità. La mia storia è quella di una parte, quella del Dams – quando mi sono iscritto dovevano ancora uscire i primi laureati – sono convinto che l’ala creativa del movimento abbia esercitato un influsso molto forte sul movimento bolognese. Magari facendo da contraltare all’ala meramente politica più tradizionale (peraltro presente in tutta Italia)”.
Riguardo la creatività, anche oggi è tempo di draghi nelle piazze ma il primo era vostro…
“Ho potuto ricostruire la storia di quel drago facendo il volume. Fu un’idea per fare una manifestazione non autorizzata il giorno di carnevale, uscimmo mascherati in migliaia e nel corteo si stagliava il drago (che avevamo progettato e costruito nei giorni precedenti). “Vediamo se caricate un pupazzo” sfidavamo le autorità. Ci tengo a precisare che con quel famoso drago entravano per la prima volta in una manifestazione politica degli elementi scenici. Prima del ‘77 le manifestazioni erano quelle classiche sindacali o di partito degli anni sessanta, mentre i nostri cortei sono quelli che si fanno ancora oggi”.
Ci sarà un nuovo ’77?
“Non credo, o meglio non così. Gli anni settanta erano il rifiuto di quella forma di benessere conformismo anni sessanta che veniva appiccicata a tutto, dalla famiglia tradizionale, al lavoro alla cultura etc. Quello di oggi invece è un periodo di crisi profonda in cui secondo me il peggio deve ancora venire; la gente ridotta alla fame e alla miseria potrà ribellarsi ma per disperazione non per ricerca della felicità. Noi non volevamo un posto di lavoro fisso, essere dipendenti per tutta la vita; volevamo poter cambiare. Ora è esattamente il contrario, perché è cambiata la fase storica. Noi avevamo un certo benessere, e volevamo la felicità. Era una fame diversa la nostra. Presto sarà fame e basta”.
Cosa ha fatto più male al movimento?
“L’eroina, senza dubbio; ha rincoglionito molte persone ne ha ammazzate altre”.
Cosa non hai fotografato del ’77?
“La gente che faceva l‘autostop. Gli zaini. Quella cosa lì. Ma nel libro c’è, fotografato dagli altri. Ecco a cosa serve essere oltre mille autori”.
I ragazzi del ’77, generazione non perduta
Un libro nato su Facebook riscopre volti e desideri travolti dagli anni di piombo
di Michele Smargiassi
Repubblica – Ed.Bologna
3 dicembre 2011
E’ un album di famiglia, perché negarlo. Sfogliato con gli stessi commenti eccitati e inteneriti: «Che ricordi!», il dito sulle foto, «Com’eri bella!». Ma una famiglia strana, senza padri e senza figli, vissuta il breve tempo di un desiderio: una primavera, un’estate, un cupo autunno. Enrico Scuro ce l’ha fatta. I ragazzi del ’77 è un libro: prima era un vaso di Pandora pieno di sentimenti contrastanti, un grumo di ricordi rimpianti rabbie dolcezze pronti a esplodere.
Ed esplosero quando il 5 febbraio scorso Enrico, che fu “il fotografo del Movimento”, mise su Facebook un po’ del suo archivio, tra cui una foto di piazza VIII agosto gremita durante il “Convegno contro la repressione” del settembre ’77. Gli arrivarono decine di messaggi «c’ero anch’io, eccomi li!». Il vaso esplose, piovvero foto, migliaia di foto. Si svegliava dal letargo la generazione che si era chiusa in un cassetto. Il libro di Enrico Scuro (con Marzia Bisognin e Paolo Ricci, edito da Baskerville-Sonic Press, in libreria il 15 dicembre) è la storia di un incontro, trentacinque anni dopo, sulle autostrade di Internet e solo grazie a quelle. Scambiarsi foto e brandelli di memoria, “taggarsi” nelle foto per riconoscere e farsi riconoscere, aggiungere tasselli: non sarebbe stato possibile altrimenti. Cinquecento pagine, centinaia di persone, milleduecento fotografie: un libro dei viventi, un censimento emotivo di anime sperdute e ritrovate. Ma non basta dire questo. Questo varrebbe per qualsiasi generazione. Ma era quella generazione. Quella dell’11 marzo, «il venerdì della nostra vita», delle barricate, di Radio Alice, dell’assassinio di Lorusso e dei carri armati di Kossiga in via Zamboni. Sì, era quella. Generazione perduta, si è detto: travolta dall’ubriacatura militarista, o dalla livella dell’eroina. Le generazioni durano vent’anni, quella ne durò due. Invece no, non è così, non è solo così. Ha fatto bene, Enrico, a costruire il suo libro rispettando il modo in cui è nato: sono i messaggi Facebook a raccontare la storia, scorrendo come un fiume fra le immagini, con le loro emozioni, i rimpianti non trattenuti, le nostalgie. Mancai! reducismo: non v’aspettate un “c’eravamo tanto armati”. C’era qualcosa di più importante da recuperare.
Francamente, le pagine più belle non sono quelle che raccontano i momenti pubblici; terribilmente tali, del marzo, del settembre, le barricate e le assemblee fumose e le piazze fumogene, fotografate da Scuro che era in fondo un reporter, militante sì ma professionista. Sono le fotografie private, quotidiane, mai viste, piccole auto-cronache uscite da cassetti lontani, insospettabilmente belle, originali, raffinate perfino, rilassate sempre, autentiche, ritornate a casa dalla diaspora degli ex ragazzi dispersi lontano dalla città che li aveva riuniti proprio allora e proprio lì. Le stanze da fuorisede pre-lkea, coi mobili comprati all’Antoniano, il riso integrale, le giacche blu della Montagnola dei ragazzi, gli zoccoli col pelo dentro delle ragazze, i gatti, i concerti dei Gaznevada, le vacanze col pullmino Volkswagen in Nepal o alle isole Orkney, i pasti malmangiati nelle osteriole, le borse di paglia, ma soprattutto ritratti, di gruppo e solitari, e su quei visi una «creatività fisiognomica», un desiderio, il sogno di una cosa.
C’era qualcosa prima dell’autunno del ’77, che si ribella ancora alla gabbia di piombo che le cadde addosso. «Je ne regrette rien», se non è un libro di pentimenti né di ripensamenti c’è un motivo: chi lo scrive c’è stato anche dopo. Non morì sulle barricate quella generazione: in tanti «trovarono il modo di ricomporre un senso della realtà». Purtroppo, «non siamo più riusciti a farlo collettivamente».
“Gli anni di marzo” dal processo a Bertolucci al rapimento Moro
Duecento foto in memoria di una città
di Brunella Torresin
la Repubblica Ed. Bologna
22 febbraio 2008
Non tutti gli anni sono uguali, e nemmeno i mesi di marzo che hanno scandito gli anni andati dal 1973 al 1978 sono stati tutti mesi di sangue, come lo fu il marzo del ’77, con la morte di Francesco Lorusso in via Mascarella, e le giornate di barricate, fumogeni e vetri infranti che seguirono.
Gli anni che le fotografie tornano a indagare, a interrogare, come conti non ancora chiusi o, per chi ha meno o poco più di trent’anni fa, nemmeno mai aperti, sono gli anni che hanno cambiato non solo Bologna ma l’Italia.
I fotografi – Luciano Nadalini (e lo Studio Camera Chiara), Piero Casadei, Paolo Ferrari, Umberto Gaggioli, Gabriele Guerra, Mario Rebeschini, Enrico Scuro, Paquale Spinelli, Stefano Aspiranti, Giuseppe Cannistrà, Patrizia Pulga, Roberta Gavazza, Anna Lisei- hanno aperto e messo in comune i loro archivi, dando vita a un progetto di testimonianza condiviso e sostenuto non solo dal Comune ma anche dalla Provincia e dalla Regione.
Oggi sono le fotografie del Movimento – del Dams occupato, nelle cui aule Umberto Eco e Luigi Squarzina chiedevano educatamente di parlare alzando la mano, di Radio Alice e delle feste ai Giardini Margherita – il nucleo di maggior intensità.
Il Movimento aveva il «suo» fotografo, Enrico Scuro, che oggi non fotografa più ma sta digitalizzando e rendendo disponibile online il suo archivio (25mila negativi).
Le fotografie riportano alla mente e agli occhi le fiumane di corpi e volti e slogan che sfilando gonfiavano le strade, «nel vero del momento», come ha detto Simona Lembi, altrimenti inimmaginabile.
Le testimonianze più difficili da ricostruire sono quelle del Movimento Femminista: le donne non avevano una loro fotografa. Anche la ricerca casa per casa, come ha raccontato ieri Luciano Nadalini, ha dato pochi frutti. È quasi una damnatio memoriae.
Scuro, gli scatti della storia
di Andrea Rinaldi
Corriere della Sera – Ed. Bologna
12 febbraio 2008
«Il ricordo è un modo di incontrarsi», sosteneva Khalil Jibran, ma quando proferiva quelle parole il filosofo non aveva di certo in mente la fotografia, né internet. Tanto meno poteva pensare al singolare progetto di un ragazzo di vent’anni, che nel ’72 arrivò a Bologna da Taranto per studiare al Dams. Quel ragazzo girava sempre con la sua macchina fotografica e immortalava ogni gesto, ogni attimo della vita bolognese che sarebbe finita poi sui libri di scuola. «Non me ne accorgevo proprio che stavo fotografando la storia», ammette candidamente.
Quel ragazzo si chiama Enrico Scuro, oggi ha cinquantacinque anni, ha continuato a vivere a Bologna e dal primo di gennaio sta mettendo su un sito (www.fotoenricoscuro.it) gli scatti dagli anni ’7o per condividerli con tutti. Per ora sono 1099 le istantanee scansionate e pubblicate, ma ci vorrà ancora un anno perché quegli anni tornino completamente alla luce dalla cantina: mancano infatti ancora 25mila negativi e in questi giorni Scuro è al lavoro per digitalizzarli. «Ti riconosci? Hai delle sensazioni, un ricordo, un flash? Condividili con noi», c’è scritto sotto ogni immagine. Il sito ha ottenuto anche il sostegno dell’istituto Gramsci e dell’archivio storico-sindacale Vera Nocentini di Torino.
«Con il trentennale del ’77 mi hanno chiesto delle foto—racconta Scuro — e allora ho cominciato a toglierle dal cassetto, ma mi sono reso conto che avevo tanto materiale così ho creato il sito». Per ora ci sono solo tre sezioni: il movimento del ’77; un capitolo dedicato agli eventi storici bolognesi dal 1972 al 1982 e i raduni giovanili degli anni ’70, come quello al parco Lambro o il live di Patti Smith in città del 1979: è stato uno dei concerti più belli di quel periodo, c’erano 40mila persone, Bologna era piena di giovani che venivano da ogni parte d’Italia.
La sensazione più forte di quegli anni era l’unione fra le persone, ti sentivi proprio parte di un gruppo molto grande, cosa che invece oggi non c’è più, oggi c’è solo l’individuo».
Nella parte del ’77, invece, non poteva mancare il muro di via Mascarella: quello con i fori di proiettile che spezzarono la vita di Francesco Lorusso l’11 marzo. Molte di quelle foto confluiranno nella mostra “Gli anni di Marzo” che verrà inaugurata il 22 febbraio alla galleria d’Accursio. «Quel giorno — racconta — mi sono ritrovato circondato da poliziotti, fortunatamente di fianco a me c’era un giornalista del Carlino che tirò fuori il tesserino e disse che ero con lui salvandomi dalle manganellate, ma a tutti quegli altri intorno che non avevano la macchina fotografica gliene diedero di santa ragione».
Enrico Scuro intanto continuava a scattare, come già faceva per Linus e Grazia Neri prima di diventare «il fotografo del movimento», compagno di avventure con Bifo, Diego Benecchi e Valerio Monteventi.
Ecco apparire l’allora segretario della Cgil Bruno Trentin mentre tiene un comizio in sala Borsa. Sandro Pertini, il presidente partigiano, tra le ombre del cortile di palazzo d’Accursio. Il corteo per l’assassinio di Walter Rossi, le osterie, Roberto Vecchioni al Palasport, Nanni Moretti al Dams. E infine la strage alla stazione di Bologna. «Mi ha messo in crisi — dice — venivo visto come uno sciacallo a fare fotografie in quel momento. Questo fu uno dei motivi per cui smisi di fare il fotografo e mi “misi a lavorare”, così dall’87 lavoro agli studi televisivi dell’Antoniano». La fantasia non era andata al potere e gli anni ’70 erano andati in cantina.
Immagini di un anno
blog di Valentina Lucio
luciovalentina.wordpress.com
5 luglio 2007
Sfogliando nuovamente bologna marzo1977…fatti nostri… voci e fotografie si intrecciano come fili di una ragnatela che ci trainano dentro quella che, nell’articolo su La Repubblica del 21 giugno 2007 viene definita da Alberto Asor Rosa la favola di una generazione . Le immagini sono essenziali, ci aiutano ad entrare attraverso frammenti, schegge di realtà in uno scenario più complessivo che deve essere osservato, per essere compreso da punti di vista diversi. Enrico Scuro, rispondendo ad alcune domande che gli abbiamo posto, dice citando Sandro Toni:
“Esistono fotografie che riproducono la realtà, foto che la occultano, foto che la creano. Ebbene, mi sembra di essermi trovato ben poche volte di fronte a un insieme di fotografie che producano in modo così totale, così tangibile, violento anche, il senso della realtà…..
…l’allegria delle due ragazze giocata contro il potere, la derisione contro le armi da guerra della polizia, l’invenzione dei murales contro i gas lacrimogeni, il non-sense contro la logica. Nelle foto i rapporti di classe, il senso degli scontri, le parti, le ideologie, i desideri sono evidenziati, dichiarati.”
Le fotografie che, una dietro l’altra, documentano ciò che è stato il 1977 a Bologna, in realtà ci pongono davanti ad istanti, attimi che stanno per svolgersi o che si stanno svolgendo. Ciò che si percepisce è l’attimo quasi sospeso, o meglio l’attesa di qualcosa che sta per accadere, che ora è storicamente già successo, ma che in realtà nell’istante in cui viene colto non è ancora avvenuto. Questo senso di proiezione verso un dopo negato fa sì che veniamo “scaraventati” direttamente in strada in mezzo al fumo, alle barricate, alle urla, agli spari, al frastuono, ai cortei, ai girotondi, alle risate, alle voci…Le immagini testimoniano lo “star per” succedere qualcosa, e, ad un tempo, coinvolgono talmente che sembrano far parte da sempre della nostra memoria personale, per cui ci appaiono quasi familiari, scene che potremmo aver vissuto o per lo meno abbiamo già conosciuto attraverso gli organi di informazione. Ma, d’altra parte, è anche come se ci dicessero di non farci trainare dal tempo della storia che esse rappresentano, rischiando di farci fossilizzare solo su un aspetto, poiché “spetta alle immagini il potere specifico di rendere visibile ciò che la storia genera al di là di se stessa” .
Oggi, dopo trent’anni, di fronte a questi scatti colti per strada da fotografi che, come “cani sciolti”, potevano intrufolarsi ovunque, ci si pongono molte domande, siamo messi di fronte a diverse sfaccettature di una storia, è come se noi fossimo presenti, anche se, in realtà, il nostro è, forse, un occhio più da voyeur perché in fondo possiamo solo intuire ciò che stava succedendo. Tornando alle fotografie presenti nel libro sopra citato, dopo aver scorso le immagini di scenari paragonabili a quelli di una città sotto assedio, ci si ritrova, in un paio di pagine, in mezzo ad un girotondo di ragazze sorridenti capeggiate da quella che, forse, può essere definita la mascotte della rivolta studentesca: il drago.
Le manifestazioni, i cortei per strada, radio Alice, le varie riviste e i collettivi sono gli strumenti attraverso cui il movimento si faceva sentire. Marco Belpoliti parla di carnevale a Bologna, le immagini più ricorrenti sono infatti quelle di grandi cortei di giovani che si esprimono attraverso slogan e performance teatrali; maschere e travestimenti sono l’aspetto più gioioso di quel 1977. Catene di ragazzi con facce dipinte di bianco, clown, avanzano per la strada, sembrano mimi, attori di una festa dei folli come definisce l’autore stesso questo carnevale. I giovani entrano nella città, si insinuano nelle strade, vogliono occuparla, sono scesi in strada per conquistarla, il loro ingresso mi ricorda l’opera pittorica di J. Ensor L’ingresso di Cristo a Bruxelles 1888-1889. La folla composta in gran parte da maschere e figure grottesche e una banda in uniforme attendono Cristo, un corteo di persone che invade lo spazio fino all’orizzonte, un corteo di fantocci statici in festa; ovviamente il contesto e la storia di questo dipinto sono completamente diversi dalle fotografie che prendiamo in esame. Si trova però una somiglianza interessante, sicuramente i pupazzi di Ensor sono una critica ad una società che priva i cittadini delle proprie idee, controllandoli dall’alto, nel nostro caso è come se il quadro ed i suoi attori prendessero vita, è come se la situazione si ribaltasse, come se ci si opponesse al controllo e tutto diventasse movimento: i pupazzi si animano, prendono coscienza di sé, si uniscono per far entrare il loro corteo in città e la banda militare in uniforme diviene la radio di tutti.
Giovani studenti delle università della città, in particolar modo quelli del Dams, crescono e plasmano la loro esperienza nei laboratori di arte e di teatro, così da un corso tenuto proprio in quegli anni da Giuliano Scabia nasce il Teatro e informazione. Esperienza di contro-informazione per le strade di Bologna, una sorta di teatro vagante capitanato, in seguito, dal drago, maschera di cartone che apre solitamente i cortei, che divengono quasi un rito sciamanico; gesti, trucchi e travestimenti sembrano quasi voler esorcizzare le strade di Bologna. Franco Berardi (Bifo) nella Postfazione del libro di Klemens Gruber Comunicazione e strategia nei movimenti degli anni Settanta afferma: “difficile trasformare la vita quotidiana librandosi leggeri come parole sussurrate: vieni con me, abbandona la linea di montaggio. Difficile perché il potere dei grigi ottusi pericolosi non lascia facilmente che il possibile si liberi dall’esistere” .
Il drago, dunque, è in testa al movimento, un movimento che cerca di trovare un altro modo possibile, così viene ripresa come figura di movimento Alice, l’Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll. La bambina fa vedere un gioco alternativo, un nuovo possibile che può, come dice Belpoliti, far nascere “[…] un altro modo di circolare. A lato dei giochi dei maschi […]”. Cercare un possibile altro nella quotidianità, nel linguaggio, nei media ha dato vita ad una sorta di laboratorio così nelle strade attraverso gli slogan, le radio, le riviste, come A/traverso, sono stati trasmessi ideali che avevano alla base intellettuali e movimenti come Majakovskij, Artaud, Guattari, Deleuze, il dadaismo…il non-senso, lo scandalo la provocazione divengono strumenti per un linguaggio dinamico, veloce, aggressivo.
Ripensando alle fotografie non è difficile immaginarsi una colonna sonora di voci, come quelle degli slogan o delle telefonate in diretta da radio Alice; nulla è filtrato tutto a/traversa Bologna. Un’invasione di nuovi segni, parole che si uniscono in un linguaggio che tenta di creare nuove realtà, nel 1978 Bifo scrive “il linguaggio è la totalità dei fatti del mondo” , la comunicazione non deve più bloccarsi a evocare il mondo, deve sovvertirlo, deve liberare, aprire le menti. Radio Alice è stata la voce che ha accompagnato il movimento; una telecronaca continua in diretta si è estesa e si è diramata in tutta la città, una radio libera di parlare, di giocare con il linguaggio e di sporcarlo. Inizia quella che Umberto Eco definisce guerriglia semiologia la cui tecnica consiste nel proporre un messaggio, rendendolo soggetto a diversi modi d’interpretazione, di discussione, ciò che viene detto può essere interrotto e il suo senso invertito, come messaggio alternativo che cerca di frenare il bombardamento dei mass media.
La fotografia in tutto ciò che ruolo ha? Credo, avendo anche sentito la voce di Enrico Scuro, che in quel periodo una fotografia forse aveva un valore di una prova come testimonianza di quello che accadeva; in un’immagine ci sono volti e azioni che possono essere riconosciuti. Lui stesso dice che ha incominciato a fotografare perché c’è stata una concomitanza di fatti: era uno studente, faceva parte del movimento e in quel periodo iniziava ad usare la macchina fotografica. Il suo ruolo, simile ad un fotoreporter, è stato anche quello di chi ha partecipato in prima persona, che, ora, di fronte ad una delle sue immagini ricorda ciò che è avvenuto, ciò che è stato e cosa è successo dopo, le sue fotografie non sono distanti, ma sono dentro la realtà. I protagonisti del ’77 non sapevano ancora che cosa sarebbe diventato il ’77, erano immersi un flusso caotico; forse dopo trent’anni un’immagine può voler dire qualcosa di più. Sicuramente, adesso ci poniamo di fronte con uno sguardo consapevole di fronte a quello che è successo, ormai noi sappiamo che cos’è stato il movimento studentesco degli anni Settanta, allora le fotografie forse davano informazioni, oggi possono raccontare una storia, forse.
Cortei, P38, slogan e creatività. Quei luoghi in Movimento
di Michele Smargiassi
la Repubblica Ed. Bologna
6 marzo 2007
Scatti a confronto trent’anni dopo il ’77, da via Zamboni a piazza di San Giovanni in Monte, in compagnia del fotografo che seguiva gli autonomi. “Il giorno che bruciai la foto di un compagno che sparava”. La decisione: “Distruggerla era il prezzo per continuare a fotografare da quella parte della barricata. A casa trovai i compagni, decisi: ‘dacci la foto’. Risposi soltanto: lasciate che la distrugga io stesso”
Ce l´aveva nel mirino. Centrato, perfettamente a fuoco. Non poteva mancarlo. Premette lo scatto. Lo prese in pieno. «Ero fiero di me, come professionista». Ma Enrico Scuro, il fotografo del Movimento del ‘77 bolognese, era anche un militante. E questo cambiava molte cose. Sapeva di avere catturato nel rullino un grande scoop fotografico, roba da prime pagine dei giornali nazionali, come la fotografia dell´autonomo col passamontagna e la pistola spianata negli scontri di Milano, qualche mese dopo. Anche a Bologna, nei giorni di fuoco dopo l´11 marzo, qualcuno in strada sparò. Era stata saccheggiata un´armeria. Quella foto di un giovane armato scattata in via Zamboni era la prova del “salto di qualità” della rivolta.
Che farne? «Cominciai a pensarci subito. Ma qualcuno mi tolse presto ogni dubbio. Tornato a casa, ci trovai già i compagni, tranquilli, decisi: ‘dacci la foto´. Risposi soltanto: lasciate che la distrugga io stesso. Accesi il fornello di cucina e guardai il rullino ancora non sviluppato sciogliersi come cera».
Rimpianto? «No: come fotografo ero soddisfatto di aver colto l´immagine. Come militante sapevo che poteva costare la galera a qualcuno, e la criminalizzazione a tutto il Movimento. Distruggerla era anche il prezzo per poter continuare a fotografare da quella parte della barricata, per non essere cacciato come un delatore, come accadde a tantissimi».
Enrico restò “fotografo di Movimento”, con mille dubbi. «Ci chiedevano solo fotografie da realismo socialista: poliziotti con la faccia cattiva, militanti in pose eroiche o simboliche. Non ci volevano poi tanto bene, i compagni. Sospettavano di noi fotografi, non ci lasciavano spazio per raccontare davvero. Molte fotografie, quelle con le facce, quelle più personali, private, le ho quasi rubate, e lo ho tirate fuori solo in questi giorni».
In via Zamboni, il sentiero degli autoblindo, oggi passano le biciclette. Il muro di fumo dell´immagine di trent´anni fa è dissolto nell´aria e nella memoria. Quella barriera di nebbia lacrimogena segnava il confine.
«Ogni sabato, per mesi, i cortei lo sfondavano, puntando verso la città ostile, la città della borghesia rossa, delle botteghe». Con la sua digitalina Enrico prende la mira con cura, per ricalcare esattamente la vecchia inquadratura in bianco e nero. Le bici lo sfiorano. «I poliziotti ci aspettavano dall´altra parte, sotto le Torri, e lì si fermavano al ritorno dei cortei, come se ci restituissero alla nostra riserva indiana». Più che un confine, un baratro, una faglia tellurica. Riparte da qui la nostra passeggiata ri-fotografica a cavallo di trent´anni nei luoghi del ‘77: e questa volta tocca ai luoghi dello scontro, non più quelli della socialità.
Sfondato il confine, oltre lo stretto budello porticato e l´imbuto di via Zamboni, ecco piazza Ravegnana: dove il corteo si disponeva in formazione. «Un´occhiata a chi teneva lo striscione d´apertura e capivi se sarebbe stato pacifico o violento». Sovversivo quanto si vuole, ma un corteo con lo sfondo delle Due Torri era sempre molto fotogenico. Ora la statua di San Petronio, rimessa da Guazzaloca in anni meno agitati, sembra benedire un luogo restituito non alla città, ma ai motori. Gli autobus si sfiorano.
Ci fu anche un bus, tra i protagonisti del ‘77 bolognese. Il «compagno autobus» di una delle più feroci poesie satiriche di Stefano Benni. Fu bruciato durante gli scontri (nella foto). Il sindacato ferrotramvieri lo rimorchiò in piazza Nettuno, lo espose come monito ai cittadini contro gli «untorelli», i «provocatori anticomunisti». Accanto al cadavere di un autobus si raccolsero firme «contro la violenza» che nessuno aveva pensato di raccogliere accanto al cadavere di uno studente. Per qualche giorno la carcassa restò lì, sotto le finestre del sindaco Zangheri, nera e accartocciata, quasi una scultura astratta di tubi contorti e plastiche sciolte.
«In fondo, e involontariamente, fu la sola risposta delle istituzioni all´altezza dei linguaggi del Movimento», osserva Enrico, «un´opera d´arte situazionista, un monumento Mao-dada».Le sue performance, l´ala creativa del Movimento le riservava invece per il palcoscenico di via Indipendenza.
Larga, lunga, scenografica. Il doppio portico era un´ideale fila di palchi di proscenio per i bolognesi comuni che, sbigottiti, impauriti, scrutavano le evoluzioni incomprensibili dei clown, dei draghi, dei mimi, delle maschere, la grande compagnia spontanea di teatro di strada del popolo dei «non garantiti». Anche via Indipendenza, come piazza Verdi, ha forse avuto il destino segnato da quel potente marchio: pedonalizzata a metà, praticabile a metà, mai davvero riconquistata dai passanti, è un altro dei luoghi irrisolti della città. Come se il tentativo di ridefinizione fatto allora fosse troppo scandaloso per essere accolto.
Torniamo sui nostri passi. C´è un ultimo scenario da rivisitare. La piazza della Repressione. La Cajenna del potere. La Bastiglia che rimase imprendibile. Piccola salita ciottolata: ecco San Giovanni in Monte. La Galera. «Fuori i compagni dal carcere», lo striscione campeggiava in tutti i cortei, e il carcere era questo. C´erano i martiri del Movimento, quelli presi dopo l´irruzione a Radio Alice, e dopo le inchieste del pm Catalanotti. Un giorno uscirono davvero, gli arrestati di “Katalanotti”: li aspettava una piccola folla euforica ma già rosa dal dubbio della vittoria di Pirro.
Anni dopo, gli studenti hanno fatto davvero irruzione nel vecchio carcere: ma come utenti disciplinati delle nuove aule dell´Università. Il luogo concentrazionario è adesso un luogo del sapere: bello spunto per una performance teatrale indiano-metropolitana che non può più esserci. Sotto il portico c´è una lapide. Parla di compagni liberati grazie all´ardimento dei «patrioti». Ma la data è 9 agosto 1944. Altra storia, altri resistenti, altri insorti: i partigiani comunisti, non i movimentisti desideranti. «Le targhe le mette chi vince», borbotta Enrico mentre si contorce cercando il punto di ripresa di trent´anni fa.
Che il Movimento del ‘77 bolognese abbia perso, qualunque cosa fosse, buona o cattiva, fertile o fallita, è difficile dubitarne. Ma chi ha vinto?
di Michele Smargiassi
la Repubblica Ed. Bologna
27 febbraio 2007
Com’erano ieri e come sono oggi le strade, le piazze e le aule universitarie che furono teatro di un’epoca. Stesso fotografo, stesso posto, stessa inquadratura: una passeggiata lunga tre decenni nei luoghi del Movimento nelle immagini di Enrico Scuro
È una barbetta nera, una peluria sottile. Riempie i buchi dei proiettili come un´imbottitura. La vedi solo se ti avvicini allo spesso cristallo, e usi la mano per schermare il riflesso. Dev´essere stata proprio la protezione del vetro a creare il tiepido microclima ideale per la crescita della muffa che inghiotte le ferite di trent´anni fa, come la giungla messicana inghiottì i relitti della civiltà maya massacrata.
In via Mascarella, oggi come allora, passano massaie con le buste del negozio e studenti che si affrettano verso le facoltà. Pochi voltano lo sguardo incuriosito a questa bacheca muta per qualche frazione di secondo: si capisce che sono i forestieri.Ma desistono subito, non trovando spiegazione. La targa che ricorda, ma non spiega, che in questo luogo l´11 marzo del 1977 Francesco Lorusso fu «assassinato dalla ferocia armata di regime» è una decina di metri più in su, dopo una panineria e una galleria d´arte, di fianco al civico 37 (su ogni campanello tre o quattro cognomi: stanze sovraffollate di studenti, certe cose non cambiano mai).
Anche su questo marmo freso il tempo ha depositato la patina dell´indifferenza. La polvere di trent´anni non ha un colore diverso da quella di otto secoli che, sul muro opposto, copre la lapide dedicata al primo convento domenicano di Bologna. Sul muro qualche locandina strappata di dibattiti e spettacoli. Ma nessuna scritta. Nessun graffito, nessun saluto per Francesco che richiami l´attenzione.
Questo muro crivellato dove ogni anno si raccoglie una piccola (sempre più piccola) folla di amici e compagni, non è mai divenuto un sacrario, non è un luogo della memoria, non tramanda nulla. Forse scritte c´erano, e il tempo o il condominio le hanno cancellate. Sotto il cristallo, però, chissà come, i cerchi di gesso attorno ai fori dei proiettili risaltano ancora bianchi sull´intonaco rossastro. Sì leggono anche i numeri scritti dalla polizia scientifica: 11, 12, 13… Ma quanti colpi spararono quel giorno, alla cieca, in mezzo alla nebbia delle molotov e dei fumogeni? Non ha sempre giurato, il carabiniere Tramontani, di averne esplosi solo sei o sette?
E gli altri? «Blowin´ in the Wind, la risposta soffia nel vento…», borbotta Enrico. È in piedi in mezzo al portico, le mani giunte a sorreggere la macchinetta, nel nuovo gesto rabdomantico dei fotografi digitali. Sguardi interrogativi dei passanti: cosa c´è di bello da fotografare qui? Il tempo, c´è il tempo passato, il tempo perduto. Trent´anni fa Enrico Scuro era in piedi su questo stesso metro quadrato di portico. Cerca la stessa inquadratura di allora, la trova. Clic. «L´ho dovuta rifare tre volte, mi tremava la mano». Nel ´77? «No, oggi».
Enrico era il fotografo del movimento. Il “compagno fotografo”. Lo “sguardo da dentro”. L´unico autorizzato a infilarsi in qualsiasi assemblea, riunione, corteo, senza essere scambiato per un delatore. «Non stavo in nessun gruppo, ero un compagno cane-sciolto, come si diceva, e nessuno diffidava di me». Rifotografare una per una le foto più importanti del suo archivio, che è un autentico patrimonio storico, la faccia di un´era.
Stessi luoghi, stesse inquadrature. Dal bianco-nero al colore, un salto brusco che misura la distanza, il passo della storia, i segni del tempo sui luoghi simbolici di allora. Il gioco gli è piaciuto. Allora via, partiamo per una passeggiata lunga tre decenni, e partiamo da qui, naturalmente, dalla fine: dal tragico climax, dal minuto maledetto quando tutto cambiò. O forse nulla, che è peggio.
E subito cerchiamo l´inizio. Quando ogni futuro era ancora aperto. Aula III di Lettere, via Zamboni: qui era il parlamento. Gennaio ´77, qui nell´aula più grande della facoltà-madre iniziano le assemblee contro la riforma dell´università.
Più sala della Pallacorda, però, che Montecitorio.Apparenza di spontaneità, ma «chi conosceva le regole non scritte delle assemblee le portava dove voleva». Lassù sull´architrave era la celebre scritta “lavorare meno lavorare tutti”. Sotto qualche mano di pittura, la ritroveranno forse gli archeologi del futuro.
Dai sottobanchi di legno, invece, nessuno ha grattato via le scritte a biro, o incise col temperino: ma anche quelle sono finite sotto uno strato di scritte di altre rivolte dimenticate (la «Pantera»? Chi ricorda?), o di epigrammi annoiati e pasquinate distratte degli studenti degli anni del disimpegno. Immancabili “Silvia tvtb”, porno-anatomie disegnate col bianchetto, numeri di telefono dell´era pre-cellulare. Di odierno, solo un adesivo del collettivo Mao: «Vogliamo tutto, soprattutto un tetto»: le ambizioni non sono più quelle di una volta.
In via Guerrazzi, invece, non c´è bisogno di archeologi. Il Dams dell´esplosione creativa, la fucina della fantasia al potere, non c´è più, nelle vecchie aule ora c´è la biblioteca di Geografia. Ma la sorpresa attende dietro una porta: Lamastein è ancora lì, goffo e truce, dove trent´anni fa Enrico lo fotografò che quasi si confondeva nell´aula di musica interamente tatuata dai murales, pianoforte compreso.
Hanno risparmiato solo lui, dentro una cornice di stucco, forse perché, dice una bibliotecaria, «a me sembra la mano di Andrea Pazienza» e magari ha ragione. Lama-Frankenstein, pitturato a tempera nervosa: ma per vederlo tutto intero bisogna spostare a spallate un pesante schedario di metallo. «Lì ce n´ è un altro, potrebbe essere Mattotti». Potrebbe essere tutto, per le poche figure a pastello che s´intravedono dietro gli scaffali. L´Accademia che ha ripreso il sopravvento sulla libertà creativa, se proprio vogliamo metaforizzare.
Ma dove le parole diventavano letteralmente pietre, non era nel chiuso delle aule, ma nel catino di piazza Verdi. Agorà e suburra, foro e arena; ma anche fortezza, bunker, piazza d´armi.
Nella notte della rabbia, ogni presenza estranea fu distrutta. Ne fece le spese il Cantunzèin, ristorante à la page. Ora c´è una copisteria: resta un fantasma, l´incongruo tettuccio a tegole con l´edera rampicante. Cosa sia piazza Verdi oggi, le cronache dei giornali lo raccontano. Le cronache nere. «A Parigi questa piazza sarebbe il foro della cultura», dice Enrico. La piazza della Sorbona è sopravvissuta così alla fine delle rivolte. Piazza Verdi no.
Sul muro di fianco alle Scuderie, allora mensa studentesca, fremono al vento le offerte di posti-letto. Euro 250 in doppia, 320 e anche 370 in singola. Sotto il portico del Comunale comincia già lo stanco bivacco punkabbestia, aprono le saracinesche i pusher. C´era una rivolta in piazza Verdi, ma adesso non c´è più.
«Chi sei tu che critichi il Pci?». Anche per rispondere a questa domanda, nella Bologna delle cento osterie è cresciuta una cultura sotterranea. Muove dalla disgregazione e aggrega, inventa, produce musica, poesia, arte. Anche politica.
di Stefano Bonilli
il manifesto
28 giugno 1979
Questo è un viaggio attraverso la cultura sotterranea di Bologna. È stato fatto per capire i motivi della nascita e dello sviluppo di questa cultura, così intrecciata con la politica. Per capire e cercare di far capire la specificità di alcune esperienze bolognesi.
Bologna è una città dalle cento osterie. È anche una città abitata da due popolazioni, la gente di Bologna e gli altri. Gli altri stanno diventando un popolo a parte, chiuso nelle sue riserve, come gli indiani sconfitti di America. Fin qui il fenomeno sarebbe uguale a tanti. Dovunque nelle città sono sorte queste riserve indiane.
Negli altri posti questi indiani stanno accoccolati nel fango e nell’ozio, si lasciano morire. Può essere l’eroina, la perdita di ogni speranza, la solitudine, la mancanza di lavoro, o tutte queste cose insieme.
Qui, a Bologna, in mezzo a mille contraddizioni, gli altri, gli indiani delle riserve, hanno elaborato spezzoni di loro cultura.
È un fenomeno dai caratteri originali, che si trasmette per canali sotterranei ai simili delle altre città. Spesso è rimasticatura, è l’eco o la parodia di esperienze provenienti dalla cultura ufficiale. Ma è anche un qualche cosa di nuovo, una ricerca del nuovo…..
«Chi sei tu che critichi il Pci?, era la domanda ricorrente, fatta per mettere a tacere ogni dissenso……
La poesia no-stop
C’è una trasmissione che inizia alla mezzanotte e termina alle otto del mattino, è dedicata alla poesia. Va in onda a Radio Città ogni venerdì. Le trasmissioni fatte sono già nove, con crescente successo. Gli autori sono giovani meno giovani della sinistra, in gran parte segnati dall’esperienza del movimento del ’77. Gli ascoltatori sono giovani e meno giovani di sinistra…..
Il poeta nascosto e l’università della poesia
Chiuso nella sua libreria antiquaria, la Palmaverde. in via Castiglione, di fronte al liceo Galvani, Roberto Roversi è uno dei punti di approdo di questa cultura sommersa bolognese…..
Gli Lp dei poveri e il rock demenziale
C’era una volta un convegno internazionale sulla repressione. Si svolgeva a Bologna nel mese di settembre. Cinque amici che frequentavano il Dams decisero di filmare quel convegno. Detto fatto una mattina presero un furgone, scrissero sulle fiancate il marchio di fabbrica, Harpo’s Bazaar, e incominciarono a filmare con una cinepresa super 8. Così, sintetizzando, è avvenuta la nascita dell’Harpo’s Bazaar…..
Alice, Cannibale, Polimagò
Riprendiamo Il viaggio. A Bologna è nato un filone culturale autonomo anche tra i vignettisti, i nuovi autori dei fumetto. Scozzari e Pazienza sono i due nomi più noti, la rivista Cannibale è il prodotto di questa nuova tendenza. E’ un disegno che racconta storie irreali ma violente…..
L’immagine al potere
Siamo alla fine di questo viaggio parziale, fatto per capire le origini di questo mondo sommerso. Abbiamo visto che molte cose rimandavano al ’77.
Di quell’anno ricordiamo le immagini di guerra e quelle creative. Le une e le altre sono di un figlio di questo movimento. E’ Enrico Scuro, un fotografo cresciuto culturalmente al corso di cinema del Dams. Per lui quel movimento è stato politica più creativa. Ha fatto tutte le più «famose» fotografie circolate in Italia e all’estero. Lui è questo dialogo.
Dove ti piace fotografare e cosa.
Dovunque c’è guerra.
Perché?
Perché mi piace. La guerra c’è sempre, solo che si finge di non saperlo.
Vuoi fare carriera?
Voglio diventare tra 1 dieci migliori fotografi del mondo, risponde tra il serio e lo scherzoso.
Ad ogni costo?
No.
Mentre parliamo guardo la foto dell’autonomo che spara sulla polizia. Anche quella è diventata una foto «storica». Quella foto, dice, io non la venderei.
Bologna cosa è per te?
Un’ottima città per riposarsi e divertirsi. Pigra, indolente. Piazza Maggiore, piazza ‘Verdi, il gelato la sera, le osterie l’inverno. Ma viverci troppo ti ammazza.
Lui fotograferà altre guerre viaggiando.
Chi sei tu che critichi il Pci?
di Stefano Bonilli
il manifesto – 28 giugno 1979
«Chi sei tu che critichi il Pci?». Anche per rispondere a questa domanda, nella Bologna delle cento osterie è cresciuta una cultura sotterranea. Muove dalla disgregazione e aggrega, inventa, produce musica, poesia, arte. Anche politica.
Questo è un viaggio attraverso la cultura sotterranea di Bologna. È stato fatto per capire i motivi della nascita e dello sviluppo di questa cultura, così intrecciata con la politica. Per capire e cercare di far capire la specificità di alcune esperienze bolognesi.
Bologna è una città dalle cento osterie. È anche una città abitata da due popolazioni, la gente di Bologna e gli altri. Gli altri stanno diventando un popolo a parte, chiuso nelle sue riserve, come gli indiani sconfitti di America. Fin qui il fenomeno sarebbe uguale a tanti. Dovunque nelle città sono sorte queste riserve indiane.
Negli altri posti questi indiani stanno accoccolati nel fango e nell’ozio, si lasciano morire. Può essere l’eroina, la perdita di ogni speranza, la solitudine, la mancanza di lavoro, o tutte queste cose insieme.
Qui, a Bologna, in mezzo a mille contraddizioni, gli altri, gli indiani delle riserve, hanno elaborato spezzoni di loro cultura.
È un fenomeno dai caratteri originali, che si trasmette per canali sotterranei ai simili delle altre città. Spesso è rimasticatura, è l’eco o la parodia di esperienze provenienti dalla cultura ufficiale. Ma è anche un qualche cosa di nuovo, una ricerca del nuovo…..
«Chi sei tu che critichi il Pci?, era la domanda ricorrente, fatta per mettere a tacere ogni dissenso……
La poesia no-stop
C’è una trasmissione che inizia alla mezzanotte e termina alle otto del mattino, è dedicata alla poesia. Va in onda a Radio Città ogni venerdì. Le trasmissioni fatte sono già nove, con crescente successo. Gli autori sono giovani meno giovani della sinistra, in gran parte segnati dall’esperienza del movimento del ’77. Gli ascoltatori sono giovani e meno giovani di sinistra…..
Il poeta nascosto e l’università della poesia
Chiuso nella sua libreria antiquaria, la Palmaverde. in via Castiglione, di fronte al liceo Galvani, Roberto Roversi è uno dei punti di approdo di questa cultura sommersa bolognese…..
Gli Lp dei poveri e il rock demenziale
C’era una volta un convegno internazionale sulla repressione. Si svolgeva a Bologna nel mese di settembre. Cinque amici che frequentavano il Dams decisero di filmare quel convegno. Detto fatto una mattina presero un furgone, scrissero sulle fiancate il marchio di fabbrica, Harpo’s Bazaar, e incominciarono a filmare con una cinepresa super 8. Così, sintetizzando, è avvenuta la nascita dell’Harpo’s Bazaar…..
Alice, Cannibale, Polimagò
Riprendiamo Il viaggio. A Bologna è nato un filone culturale autonomo anche tra i vignettisti, i nuovi autori dei fumetto. Scozzari e Pazienza sono i due nomi più noti, la rivista Cannibale è il prodotto di questa nuova tendenza. E’ un disegno che racconta storie irreali ma violente…..
L’immagine al potere
Siamo alla fine di questo viaggio parziale, fatto per capire le origini di questo mondo sommerso. Abbiamo visto che molte cose rimandavano al ’77.
Di quell’anno ricordiamo le immagini di guerra e quelle creative. Le une e le altre sono di un figlio di questo movimento. E’ Enrico Scuro, un fotografo cresciuto culturalmente al corso di cinema del Dams. Per lui quel movimento è stato politica più creativa. Ha fatto tutte le più «famose» fotografie circolate in Italia e all’estero. Lui è questo dialogo.
Dove ti piace fotografare e cosa.
Dovunque c’è guerra.
Perché?
Perché mi piace. La guerra c’è sempre, solo che si finge di non saperlo.
Vuoi fare carriera?
Voglio diventare tra 1 dieci migliori fotografi del mondo, risponde tra il serio e lo scherzoso.
Ad ogni costo?
No.
Mentre parliamo guardo la foto dell’autonomo che spara sulla polizia. Anche quella è diventata una foto «storica». Quella foto, dice, io non la venderei.
Bologna cosa è per te?
Un’ottima città per riposarsi e divertirsi. Pigra, indolente. Piazza Maggiore, piazza ‘Verdi, il gelato la sera, le osterie l’inverno. Ma viverci troppo ti ammazza.
Lui fotograferà altre guerre viaggiando.
recensione a “Malgrado voi“
di Giuseppe De Bellis
Un album… malgrado loro
27 maggio 1979
Se un ‘difetto’ bisogna trovare nel fotolibro di Scuro (ed uno almeno è d’obbligo trovarlo) è probabile che consista nella limitatezza del pubblico (‘audience’ verrebbe voglia di scrivere) in grado di poter afferrare a pieno le emozioni ed i significati delle sue immagini: sono foto fatte “dall’interno” del movimento, foto in gran parte scattate “ad uso e consumo” del Movimento di Bologna assolutamente altro da un reportage, da un documento giornalistico. Chi non ha vissuto abbastanza direttamente questi ultimi anni bolognesi potrà certo consumare questo libro alla proficua ricerca di atmosfere, di profumi, di omofonie, ma non potrà immergersi a fondo nella ‘privatissima’ storia che esso racconta.
«La nostra (storia), fatta di tenerezze, scritte sui muri, cortei gioiosi e militari, tensioni, rimane nostalgico ricordo, per alcuni neanche consapevole memoria»: le immagini di Scuro sembrano le puntuali pietre miliari di questa frase (di Benecchi): sono le pedine di un gioco di incastri, che riporta alla luce le suggestioni e le paure dell’avventura bolognese. Un libro, in sintesi, che dovrà subire differenti usi a seconda che venga guardato da chi a Bologna, ‘c’è stato in mezzo’ o da chi, a Bologna, non c’era o se c’era, dormiva.
segnalazione “Malgrado voi“
rubrica La parte dell’occhio
di Francesco Vincitorio
3 giugno 1979
“Malgrado voi”. Libretto che raccoglie le drammatiche “immagini di due anni di battaglie del Movimento di Bologna”. Autore il fotografo Enrico Scuro. Ediz. L’occhio impuro. Bologna
recensione a “Malgrado voi“
7 giugno 1979
« Immagini di due anni di battaglie del movimento di Bologna ». Così esordisce il sottotitolo di « Malgrado voi » un libro fotografico di Enrico Scuro, in libreria da qualche settimana e proposto dalle edizioni « L’occhio impuro ». Le foto sono introdotte da due brevi scritti: il primo di Diego Benecchi « contro il quotidiano della rinuncia »; il secondo « contro l’esistente per il possibile » del trasversalista Franco Berardi (Bifo).
Le foto si snodano subito dopo e sono una scelta del discorso fotografico « ufficiale » delle vicende bolognesi. Alcune foto sono già note: le abbiamo viste su Linus, giornali, fogli, libri, altre sono, oltre che inedite, migliori delle note.
Per quelli che sono riusciti a mettersi in pensione « post-movimentista » l’oggetto è indispensabile, potranno dire ai loro figli: « vedi, quello col passamontagna e la spranga è papà da giovane… ». Ma va bene anche per quelli che in pensione non sono riusciti ad andarci: vedere la propria faccia va sempre bene. Ottimo da mostrare agli amici nelle lunghe serate dedicate alle « mie foto ».
recensione a “Malgrado voi“
di Ando Gilardi
Piccola la città e Bifo mormora
luglio 1979
Il primo sintomo, agghiacciante, della demenza lo svelano il linguaggio e la scrittura. Succede questo: il malato ha in testa delle idee confuse, poi sa scrivere frasi confuse. Fra le idee e le frasi non esiste nessunissimo rapporto: immaginate due tiretti della scrivania completamente in disordine, come capita. Il primo non descrive il secondo, meno che mai lo spiega: solo si può dire che hanno in comune il disordine. Ora, il demente, considera questo rapporto come trascrizione: il secondo tiretto è la forma descrittiva del primo. E si tiene il primo tiretto in testa, ti fa vedere il secondo e dice: ecco come la penso, ti ho chiarito l’idea?
Tutto questo per parlarvi di un piccolo fotolibro di Enrico Scuro, fotografo, con testi di Diego Benecchi e Franco Berardi detto Bifo. I quali sono esempi perfetti di quella dissociazione del linguaggio che abbiamo brevemente descritto. Bifo ebbe una certa notorietà qualche anno fa al tempo della Marcia del Movimento su Bologna: era un professorino molto arrabbiato che ripeteva « vi spazzeremo tutti con una risata ». Deve essere molto invecchiato, e perso i denti, quanto meno ideali. Forse ora dice « vi spruzzeremo tutti con una risata ». Mio dio, mio dio: che tristezza. Però grazie, dio, per avermi piazzato tre generazioni fa: meglio merda che niente.
Il fotolibro Scuro ha per titolo « Malgrado voi, immagini di due anni di battaglie del movimento di Bologna ».
Insomma, a suo modo è interessante come documento dell’amplificazione resa possibile dalla fotografia di quelle che furono, come qualità politica, squallide risse da osteria portate sulla piazza. È vero, ahimé, che può scapparci un morto. O due al massimo. Ma questi sono gli svantaggi e i vantaggi della mia generazione: che si è fatta un’economia della compassione secondo la quale si usa la parola battaglia da qualche centinaio di morti in su. Al di sotto si tratta di incidenti: penosissimi ovviamente. Ma incidenti.
recensione a “Malgrado voi“
Fotografia ed editoria
14 dicembre 1979
Significativa, in proposito, la testimonianza di Enrico Scuro, un giovane fotografo bolognese che ha vissuto l’avventura della autoedizione: « Basta avere un piccolo capitale, trovare un compositore, un tipografo e un rilegatore e il gioco è fatto. Nella pratica, però, è un’altra cosa.
Avevo in cantiere due progetti di libri fotografici: il primo che documentava i « fatti » di Bologna dal ’77 in poi, il secondo centrato sui grandi raduni musicali. Un editore ha visto le centinaia di fotografie e si è mostrato entusiasta di poterle trasformare in due libri. Dopo sei mesi si è accorto che non poteva rischiare la pubblicazione di un fotografo sconosciuto. Ho rischiato da solo, realizzando il primo progetto. Un prestito di una banca e qualche cambiale. Costo: 2.000.000 di lire per 2.100 copie. Risultato: un libro, « Malgrado voi », di 60 pagine 20 x 20. Prezzo di copertina 3.000 lire.
Poi mi sono accorto che il problema vero non era fare il libro, ma venderlo… Insomma, si è trattato di perdere un paio di mesi e dormire poco la notte per tutti i problemi pratici ed economici. Una esperienza da fare al massimo una sola volta nella vita ».