Dialoghi di Estetica
Intervista di Davide Dal Sasso per Artribune
ANTROPOLOGIA E FOTOGRAFIA SI MESCOLANO NELLA PRATICA DI ENRICO SCURO, CELEBRE SOPRATTUTTO GRAZIE AGLI SCATTI REALIZZATI NEGLI ANNI SETTANTA
Con le sue fotografie Enrico Scuro (Taranto, 1952) ha ritratto alcuni aspetti dei cambiamenti sociali e culturali avvenuti durante gli anni Settanta. Dalle contestazioni sociali a taluni eventi della tradizione popolare, dalle processioni religiose ai raduni giovanili, da Umbria Jazz al Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo, dai concerti e le feste di Radio Alice alle assemblee durante le occupazioni all’Università di Bologna.
Migliaia di scatti realizzati in luoghi diversi – da Venezia, Bologna, Taranto, Roma a Berlino, Barcellona e Amsterdam – con cui Scuro ha sviluppato la sua ricerca fotografica di orientamento antropologico. In questo dialogo abbiamo messo in luce alcuni aspetti della sua poetica soffermandoci in particolare sui seguenti temi: il suo ‘sguardo dall’interno’, l’attenzione per le relazioni umane, il ruolo della forma nella pratica fotografica, l’inclinazione antropologica del suo lavoro.
Uno degli aspetti che mi sembra abbia caratterizzato la tua attività fotografica è in particolare il tuo interesse per l’utilizzo del mezzo più che per il risultato che potevi ottenere. Un modo di lavorare che sottolinea soprattutto l’importanza della possibilità di stabilire relazioni attraverso la fotografia.
Scoprivo il mezzo usandolo e basandomi sui miei studi. La macchina fotografica conserva una parte di spazio-tempo. Qualsiasi fotografia è conservazione di un momento, di un istante di quello che possiamo vedere. La macchina fotografica è un mezzo, come la penna per lo scrittore.
Tieni presente, però, che all’epoca avevo vent’anni e fotografavo quello che succedeva intorno a me. Dunque, fotografavo anche ciò che succedeva a me. Per esempio, i rullini di Umbria Jazz del 1976 sono frutto di questo approccio: partecipando all’evento ho fotografato quello che facevano gli altri e che facevo anche io. Il tratto relazionale che hai notato lo penso anche come una sorta di possibile simbiosi tra la mia vita e le foto che ho scattato.
Le tue fotografie mostrano infatti quello che potremmo chiamare ‘uno sguardo dall’interno’ delle situazioni e degli eventi ai quali partecipavi.
Quella che stai descrivendo è la fotografia sociale degli anni Settanta. Io la praticavo dando molta importanza alla possibilità di trovare un modo per entrare in contatto con le persone. Coltivavo così una sorta di legame empatico con chi fotografavo, infatti spesso nelle foto ho cercato uno scambio di sguardi.
Al momento di scattare non ho mai considerato qualcosa come un ‘attimo decisivo’, solo a posteriori si può stabilire quale è stato l’attimo decisivo. Semmai mi sono concentrato sulla possibilità di seguire il gesto, di catturarlo. L’attenzione ai gesti, ai rapporti tra movimenti e spazi, è importantissima per me. Ma, non essendo fotografie in posa ed in ambiente controllato, al momento dello scatto si può solo avere una visione del risultato finale: spesso sono riuscito nei miei intenti, altre volte sono arrivati esiti del tutto inaspettati.
La tua apertura alla imprevedibilità si traduce anche nella scelta di non mettere al centro delle foto il soggetto ma i contesti. Prima citavi le fotografie di Umbria Jazz, in esse – e questo risalta anche in quelle che hai fatto al concerto di Patty Smith a Bologna nel 1979 – si riconosce questa seconda caratteristica del tuo lavoro: l’interesse per le relazioni umane.
Si, in entrambi i casi il mio sguardo era sulle persone, non sul concerto di per sé. Patty Smith che suonava a Bologna nel 1979, era certamente un evento. Ma, dal mio punto di vista, cinquantamila persone che venivano in città per aspettare il concerto, stare insieme fin da prima del suo inizio, scegliere dove mettersi durante l’attesa in Piazza Maggiore… erano tutti momenti di un evento ancora più importante.
Da dove trae origine questo tuo modo di lavorare?
In parte dal contesto sociale e culturale di quegli anni. In parte dagli studi che ho fatto al DAMS. Soprattutto, quelli di antropologia culturale che mi hanno influenzato almeno in due modi: incentivando il mio interesse per gli eventi popolari e invitandomi a fare attenzione alla ‘posizione del fotografo’. Per un verso, i rullini dedicati a processioni religiose e riti della tradizione popolare – per esempio, le fotografie che ho fatto a Taranto e Cerignola – erano un modo per usare la fotografia da antropologo. Per un altro verso, condividevo le linee di pensiero del dibattito di quegli anni, sulla presenza del fotografo e il rischio che essa fosse una interferenza che potesse modificare l’evento stesso.
FOTOGRAFIA E ANTROPOLOGIA SECONDO ENRICO SCURO
Sulla base di questi presupposti, come si è sviluppata la tua pratica fotografica in rapporto all’inclinazione antropologica che hai descritto?
Direi almeno in due modi. Non ho mai chiesto a qualcuno di mettersi in posa. Ho sempre preso tutto dalla realtà, osservando quello che accadeva. Ossia lavorando con il giusto distacco, dall’interno ma riducendo il più possibile le interferenze che potevo causare. Questo era il mio modo di partecipare all’evento senza snaturarlo. E poi, sviluppando quella che alla fine è considerabile come una indagine sul campo fatta però con la macchina fotografica.
Diventando così tanto parte del contesto, il fotografo non rischia di perdere il suo ruolo?
Non credo assolutamente nell’oggettività della fotografia. La sola fotografia che deve essere oggettiva è quella della polizia scientifica. Per tutto il resto, la fotografia non è oggettiva. Il fotografo conserva sempre il suo ruolo perché è lui che direziona lo sguardo, imposta l’inquadratura, determina il taglio che avrà l’immagine.
Però, possono sempre esserci degli imprevisti. Tuttavia, mi sembra che tu li affronti riuscendo a fare della tua fotografia uno strumento che riesce a esprimere al meglio la vitalità, il flusso degli eventi e appunto anche gli accadimenti improvvisi.
Sono d’accordo con te. Sono fotografie che possono esprimere quegli elementi che hai citato. Ma c’è un altro elemento importante che non possiamo trascurare: l’estetica. Più precisamente la possibilità di fare fotografia secondo quella che chiamo ‘iconicità’ delle immagini.
Di che cosa si tratta?
Coltivo da quando ero un liceale la mia passione per la pittura rinascimentale. Nel 1972 durante il viaggio verso la Francia per partecipare ai campi di volontariato internazionale di Emmaus, comprai una Canon FTb usata e feci tappa a Venezia con i miei amici di viaggio. Fu in quella occasione che vidi il meraviglioso dipinto di Paolo Veronese ‘Convito in Casa di Levi’ del 1573. Un’opera che mi impressionò così tanto da lasciarmi a bocca aperta. Dopo qualche istante che lo osservavo, mi dissi: ecco io voglio fotografare così.
Quel dipinto mostra tre aspetti che reputo fondamentali per la riuscita di una immagine: il suo potenziale visivo (l’iconicità), la dispersione del soggetto (è un’opera composta da numerose scene, e di solito non si guarda solo il soggetto ma anche ciò che c’è intorno), la possibilità di mostrare la ricchezza dei gesti e delle posizioni.
FORMA E FOTOGRAFIA
Come hai sviluppato il tuo lavoro sulla base di quei tre elementi?
Legando l’estetica a quel substrato, culturale e antropologico, del quale abbiamo parlato prima. Ossia cercando di impostare la fotografia su quegli elementi. Certo, fotografando la realtà non puoi trovare sempre tutto e tutto al posto giusto. Però, spesso mi andavo a cercare la migliore inquadratura per riuscire ad avvicinarmi il più possibile a quel tipo di immagine ‘iconica’ che avevo nella testa. Cercavo di riuscire a mostrare la vitalità che avevo visto nell’opera del Veronese, di darle una forma con la fotografia.
Che ruolo ha la forma nella tua pratica fotografica?
La considero come un mezzo per raggiungere il fine di avere una buona fotografia. Ma è anche bellezza, poiché è la purezza e l’ordine che caratterizzano le composizioni. Il suo è un ruolo decisivo. La forza di una fotografia è legata tanto al soggetto che viene mostrato quanto a come lo si mostra. I soggetti, i contenuti, di due fotografie potrebbero essere gli stessi: ma, a far la differenza è la loro forma, la forza visiva. La forma contribuisce a rendere l’immagine permanente nel tempo: le immagini che ricordiamo hanno una forma ben precisa, ossia in rapporto a come sono fatte e a che cosa mostrano. Senza una forma l’immagine dice poco, la si dimenticherebbe appena la si vede.
Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo e il suo rapporto con l’archivio, il legame di quest’ultimo con la cultura visiva e il patrimonio culturale. È membro di Lynx – Center for the Interdisciplinary Analysis of Images, Contexts, Cultural HeritageLabont-Center for Ontology, SIE (Società Italiana d’Estetica), NSAE (Nordic Society for Aesthetics).
È ideatore e curatore di “Dialoghi di Estetica”, rubrica di filosofia e arti pubblicata dal 2012 sulla rivista Artribune. Ha pubblicato diversi articoli su temi di estetica, arte contemporanea e filosofia dell’arte. È l’autore dei libri “Nel segno dell’essenziale L’arte dopo il concettualismo” (Rosenberg & Sellier 2020) e “The Ground Zero of the Arts: Rules, Processes, Forms” (Brill, 2021), ha curato con la filosofa Elisabeth Schellekens (Uppsala University) il volume “Aesthetics, Philosophy, and Martin Creed” (Bloomsbury, 2022).