La generazione non perduta
di Michele Smargiassi
sul blog Fotocrazia-la Repubblica.it
21 dicembre 2011
Volevano seppellire il mondo con una risata, furono seppelliti dal triste metallo delle P38. Ma sono resuscitati, con un sorriso di indulgenza e di affetto, grazie alla leggerezza di Internet. I ragazzi del ‘77 ci sono ancora, forse qualcuno sarà finito in banca, per dirla con Venditti, ma si sono salvati, in tanti, dal fumo delle barricate. E si sono ritrovati in piazza: la piazza virtuale di Facebook, per una volta non il solito luogo delle chiacchiere adolescenziali.
Il libro I Ragazzi del ‘77 che Enrico Scuro mi ha appena portato in redazione sembra un album di famiglia: oltre milleducecento fotografie, facce, corpi di ragazzi, nomi, date, commenti eccitati e inteneriti: “Che ricordi!”, pagine sfogliate col dito sulle foto, “Com’eri bella!”. Ma è una famiglia strana, senza padri né figli, vissuta il tempo d’un desiderio: una primavera, un’estate, un cupo autunno.
Non è però ingenua l’operazione di Enrico. È un grumo di ricordi rimpianti rabbie dolcezze quello che esplose il 5 febbraio scorso, quando lui, che nella Bologna della rivolta era “il fotografo del Movimento”, mise su Facebook un po’ del suo archivio, tra cui la foto di una piazza gremita durante il convegno “contro la repressione” del settembre ‘77, che segnò la rottura fra lo spontaneismo dell’ala creativa e il militarismo degli ormai-clandestini. Un’operazione di documentazione, pensava Enrico. Invece, con suo stupore, gli piovvero sul sito decine, poi centinaia di messaggi taggati “c’ero anch’io, sono quello lì!”.
Aprì una pagina dedicata: arrivarono altre foto, altre migliaia di foto. La generazione che si era chiusa in un cassetto. Il libro che ora Scuro ne ha ricavato (con Marzia Bisognin e Paolo Ricci) è un cortocircuito visuale che scavalca trentacinque anni di ciascun-per-sé, grazie alla possibilità di ritrovarsi a distanza, scambiarsi foto e memorie, di “taggarsi” per riconoscere e farsi riconoscere.
L’album di una generazione non qualsiasi: quella di Radio Alice, di Andrea Pazienza, degli “Indiani metropolitani”, ma anche dell’11 marzo, “il venerdì della nostra vita”, dell’assassinio di Francesco Lorusso, delle barricate, dei carri armati di Kossiga all’Università. Generazione perduta, si è detto. Invece, ritrovata. Scuro ha costruito il libro rispettando il modo in cui è nato: sono i messaggi Facebook a raccontare la storia, scorrendo come un torrente in piena fra le immagini. Un po’ di nostalgia, ma poco reducismo: niente “c’eravamo tanto armati”. C’era qualcosa di più importante da recuperare.
Francamente, le pagine più belle non sono quelle che raccontano i momenti pubblici, terribilmente tali, del marzo, del settembre, le barricate e le assemblee fumose e le piazze fumogene, fotografate da Scuro che era in fondo un reporter, militante sì ma professionista. Sono le fotografie private, quotidiane, mai viste, piccole auto-cronache uscite da cassetti lontani, insospettabilmente belle, originali, raffinate perfino, rilassate sempre, autentiche, ritornate a casa dalla diaspora degli ex ragazzi dispersi lontano dalla città che li aveva riuniti proprio allora e proprio lì. Fotografie che raccontano un’altra storia e cambiano anche quella che le foto più dure e drammatiche sembravano raccontare.
Le stanze da fuorisede pre-Ikea, coi mobili comprati all’Antoniano, il riso integrale, le giacche blu del mercatino della Montagnola dei ragazzi, gli zoccoli col pelo dentro delle ragazze, i gatti, i concerti dei Gaznevada, le vacanze col pullmino Volkswagen in Nepal o alle isole Orkney, i pasti malmangiati nelle osteriole, le borse di paglia, le pance delle giovani mamme, ma soprattutto ritratti, di gruppo e solitari, e su quei visi una “creatività fisiognomica”, un desiderio, il sogno di una cosa.
C’era qualcosa prima dell’autunno del ‘77, che si ribella ancora alla gabbia di piombo che le cadde addosso. Je ne regrette rien, se non è un libro di pentimenti né di ripensamenti c’è un motivo: chi lo scrive c’è stato anche dopo. Non morì sulle barricate quella generazione: in tanti «trovarono il modo di ricomporre un senso della realtà». Purtroppo, «non siamo più riusciti a farlo collettivamente».
(Parti di questo articolo sono uscite su La Repubblica, cronaca di Bologna, e su Repubblica Sera, edizione tablet).
I ragazzi del ’77
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