La performance a Bologna negli anni ’70
a cura di Uliana Zanetti
Settore Musei Civici Bologna | MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, 2023
Volume realizzato nell’ambito del progetto Immagini d’autore come opere e come fonti per la ricerca storica vincitore del PAC2021 – Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura
Intervista di Uliana Zanetti a Enrico Scuro
UZ Quali sono le tue origini e come sei arrivato alla fotografia?
ES Sono nato a Taranto nel 1952 e, nel 1971, terminato il Liceo Scientifico, mi sono iscritto a Ingegneria al Politecnico di Torino. Negli anni del liceo mi ero appassionato all’arte e avevo cominciato a dipingere paesaggi. Quando ho scoperto l’Iperrealismo americano, con quei dipinti che sembrano fotografie vere, me ne sono innamorato e ho desiderato fare cose identiche, ma come pittore ne ero incapace. Ho smesso e ho pensato che dovevo iniziare a fare delle fotografie.
Nell’estate del 1972 una serie di circostanze ha dato una svolta alla mia vita. Insieme a due miei amici di Taranto ho fatto il mio primo viaggio all’estero, in un campo di lavoro Emmaus a Digione, in Francia. Si trattava di campi di lavoro internazionali, ideati dall’Abbè Pierre, un monaco francese, organizzati nel periodo estivo. Si raccoglievano a tappeto, nella città e nella campagna circostante, casa per casa, tutte quelle cose che alla gente non servivano più. Nei campi si operava la selezione del materiale raccolto (carta, ferro, vestiti, oggetti, mobili) che veniva poi venduto e il ricavato destinato alle popolazioni africane. Nei campi, cibo e alloggio gratis. Era una grande occasione di uscire dalla provincia ed incontrare giovani di tutta Europa.
Siamo partiti in autostop e abbiamo fatto la prima tappa a Milano. Lì ho visto in una vetrina una Canon FTb usata. Ho preso l’insensata decisione di comprarla spendendo quasi tutti soldi che avevo per l’intero viaggio. Ma sentivo che iniziava un nuovo periodo della vita e volevo assolutamente fotografarla. Poi siamo andati a Venezia. Da buoni appassionati d’arte abbiamo visitato chiese e musei. Alle Gallerie dell’Accademia sono rimasto abbagliato dalla Cena in casa di Levi [1573] di Paolo Veronese. Era un quadro enorme, con all’interno tante scene che erano tutte perfette inquadrature fotografiche, con quella prospettiva rinascimentale e tutti i personaggi nell’atto di vivere. Mi sono detto che dovevo fotografare così.
A Digione, c’erano due campi di lavoro alloggiati in due diverse scuole. Un giorno sono venuti a trovarci quelli dell’altro campo e lì c’era una ragazza bolognese che mi è subito piaciuta ma dovevo partire il giorno successivo per Parigi e ci siamo salutati pensando di non rivederci. Invece no. Una giornata veramente sfortunata di autostop mi ha costretto a rimanere a Digione. La sera l’ho rivista e ho preso il coraggio di farmi dare il suo indirizzo. Ci siamo scritti e a novembre, dovendo tornare a Torino per gli studi, mi sono fermato a Bologna per incontrarla e non me ne sono più andato. La ragazza è Angela Gualanduzzi. Mia moglie.
Al momento delle pratiche per trasferirmi da Torino all’Università di Bologna, l’impiegato allo sportello mi ha detto che avrei perso gli esami già fatti a Torino. Era un errore, ma l’ho scoperto dopo. Piuttosto che ricominciare Ingegneria daccapo, l’interesse per la fotografia e il mio carattere impulsivo mi hanno portato ad iscrivermi al DAMS. Mio padre si arrabbiò moltissimo e mi tagliò i viveri per un anno.
UZ Chi hai conosciuto al DAMS?
ES Nel 1973 al DAMS c’erano poche centinaia di iscritti divisi in tre indirizzi: arte, musica e spettacolo. Io facevo spettacolo. Le aggregazioni avvenivano all’interno dei diversi corsi disciplinari, per simpatia e interessi. Ho conosciuto tanta gente, ma ero particolarmente legato a Francesco Conversano, Stefano Barnaba e Massimo Marino. Avevamo costituito il Gruppo di ricerca audio-visiva, che si interessava di feste popolari a carattere religioso, sulla traccia degli studi di De Martino sul folklore. Abbiamo fatto due documentari: uno sulla Settimana Santa a Taranto e uno su quella di Cerignola. Mi sono laureato con una tesi che riguardava la documentazione cinematografica delle feste religiose con Giampaolo Bernagozzi, docente di Cinematografia documentaria. Il correlatore era Italo Zannier, mio insegnante di Storia della fotografia.
UZ Quindi ti occupavi di cinema?
ES Sì, i due documentari che avevamo fatto erano parte integrante della tesi, anche se le riprese cinematografiche le aveva fatte Conversano e io avevo scattato solo fotografie. Conoscere il linguaggio cinematografico è importante anche per un fotografo. La ricerca sulle feste religiose è il primo nucleo del mio lavoro di fotografo.
Sempre nata all’interno del DAMS c’è la documentazione del lavoro fatto da Giuliano Scabia con il Gruppo del Gorilla Quadrumano per il corso di Drammaturgia II. Una ricerca sul linguaggio del teatro vagante di origine contadina e la sua forza comunicativa.
Nel 1976, con i grandi raduni musicali italiani, è iniziata una nuova fase fotografica. Il primo raduno è stato Umbria Jazz. I concerti erano tutti gratis, ogni sera in una località diversa. Migliaia di persone che arrivavano da tutta Italia e si spostavano tra le città dell’Umbria con tutto il contrasto tra le architetture medievali e questa tipologia umana. Poi ci sono stati la Festa del Proletariato giovanile a Parco Lambro e un tentativo di fare qualcosa di simile da parte del PCI a Ravenna. Ho fotografato tutti questi avvenimenti, ma perché ero lì come spettatore.
UZ Avevi mantenuto un interesse per questi raduni di massa che già avevi quando andavi alle feste religiose. Lo sguardo era rivolto al pubblico. Nelle feste religiose tutti erano in qualche modo parte attiva della scena della rappresentazione. Ai concerti invece c’era una separazione più netta tra chi si esibiva e chi ascoltava, ma tu non fotografavi i musicisti.
ES Sì, il soggetto principale di tutte le mie fotografie sono le persone inserite in un contesto. Tra tutti gli scatti che ho fatto a Umbria Jazz c’è solo una fotografia del palco, da lontano. A Parco Lambro penso siano due. A me interessavano le persone.
Per me è stato naturale fotografare il ’77 e farlo in quel modo. Quel genere di fotografia era quello a cui ero abituato.
UZ C’è anche chi guarda in camera.
ES Io amo le persone che guardano in camera. Tante volte ho aspettato che guardassero in camera per scattare, perché negli anni ’70 c’era un rapporto diretto tra fotografo e fotografato. Era anche il superamento del codice che voleva non si notasse la presenza del fotografo. La presenza del fotografo è dichiarata. Come negli scatti dei fotografi ambulanti dell’ottocento. Il soggetto che guarda in camera, inoltre, guarda negli occhi chi vede l’immagine. C’è ancora più coinvolgimento.
UZ Quanto contavano per te gli stili di reportage che potevi conoscere in quel periodo e gli insegnamenti di Zannier? Tu come ti orientavi rispetto al contesto, visto che nessuno ti commissionava queste immagini?
ES Molto ha influito anche il leggere e il guardare fotografie il più possibile. Un amico edicolante mi lasciava sfogliare tutte le riviste e vedevo un sacco di immagini. Il mio modello era Donald McCullin. Il suo primo reportage che ho visto è quello sull’Irlanda del Nord. Da lui ho imparato che si potevano fare fotografie belle del quotidiano e della realtà, anche la più cruda.
UZ Cosa intendi per bella foto? Cosa conta di più per te: il taglio, il momento da cogliere nello scatto, la prospettiva, la luce?
ES Non dipende da un solo fattore. C’è un po’ di tutto. Le foto belle sono quelle che ti restano impresse appena le vedi, quelle che mostrano qualcosa che non hai già visto. Quindi c’è il taglio e c’è la luce, ma in questo tipo di fotografie la luce è quella che c’è: se devi prendere un’immagine al volo hai solo il tempo per inquadrare. I primi anni sono stati fondamentali nell’imparare a gestire la luce presente e, soprattutto di notte, la luce assente. Non mi piaceva e non avevo il flash. Dovevo far venire una foto dal buio. È stato un insegnamento importante.
UZ Che importanza ha l’aspetto formale nelle tue fotografie?
ES Ha molta importanza. Spesso le mie foto sembrano quadri rinascimentali, con un’impostazione molto classica. Il soggetto è quasi sempre al centro dell’immagine, con una vista frontale e un punto di fuga centrale. Per esempio, nella foto dell’assemblea al DAMS, che avete acquisito, riconosco lo schema compositivo della Scuola di Atene di Raffaello. Non li ho messi in posa io, ma ho scelto quell’inquadratura. Un altro esempio è la foto con la macchina rovesciata in strada con la prospettiva di Via Zamboni. Col tempo ho notato che è una copia, nella sua struttura, della Città ideale che si trova a Urbino. Eravamo in mezzo a degli scontri con la polizia ed io sono andato a cercare inconsapevolmente quell’inquadratura particolare.
UZ Com’è iniziata la tua carriera di fotografo professionista?
ES Ero un lettore di Linus e nel 1976 Oreste Del Buono, che dirigeva la rivista, invitò i lettori a inviare articoli e immagini, dicendo che i migliori sarebbero stati compensati e pubblicati. Mandai l’articolo e il servizio fotografico su Parco Lambro e me lo pubblicarono. Poi mandai il reportage su Umbria Jazz e pubblicarono anche quello. Mi invitarono in redazione, perché ero stato, tra i lettori, l’unico ad essere pubblicato Così ho iniziato a collaborare con loro. All’inizio del ’77 mi è stato suggerito di mostrare le mie fotografie a Grazia Neri a Milano. Sono stato accettato e sono stato incluso tra i reporter free-lance che la sua agenzia distribuiva. Sono rimasto con lei fino a quando non ho smesso di fare il fotografo professionista, nel 1982.
UZ Nel suo romanzo Boccalone. Storia vera piena di bugie, Enrico Palandri parla molto del libro Bologna marzo ’77. Fatti nostri, che fu pubblicato quasi subito e che è uno dei primi che contiene tue fotografie. Dopo l’uccisione di Lorusso si sentiva questa esigenza di fare immediatamente contro-informazione?
ES Quel libro nasce effettivamente dall’esigenza di fare contro-informazione. Tra gli ideatori e organizzatori, a parte Enrico Palandri, c’erano Claudio Piersanti, Maurizio Torrealta e Carlo Rovelli. Due scrittori, un giornalista e uno scienziato. Mica male per un libro di movimento. Io naturalmente ho messo a disposizione tutte le mie fotografie fatte fino ad allora. L’editore era Bertani. Ci furono tentativi di sequestro dei materiali che avevamo, ma riuscimmo a portare tutto in tipografia. Era un libro collettivo che presentava la nostra versione dei fatti. L’immagine del Movimento veicolata dai media era estremamente negativa e noi dovevamo difendere le nostre ragioni. L’espressione delle nostre idee e la contro-informazione erano essenziali.
UZ A me sembra che nel Movimento del ’77 si avverta quasi un’urgenza di curare la propria messa in scena, come di trasporre subito gli eventi in narrazioni di stampo letterario. Credo ci sia stato anche il tentativo di dare forma a un racconto e a un immaginario orientati fin dal principio da una volontà di auto-documentazione. Mi sembra un aspetto particolarmente interessante, perché su questo piano la fotografia diventa determinante.
ES Il Movimento era una cosa strana. Tieni presente che è cominciato con Radio Alice nel 1976, dove tutti potevano parlare, quasi stile social. Poi c’era il DAMS nel suo periodo d’oro, pieno di talenti letterari e teatrali. Il teatro di Scabia ha cambiato tantissimo il modo di fare le manifestazioni. Io ho delle fotografie del gennaio 1977 dove la testa del corteo è quello classico del ’68: due file di servizio d’ordine, con il manico di piccone in mano e la bandierina rossa. A febbraio c’è già il corteo con il Drago, che viene dagli insegnamenti di Scabia sul teatro popolare e sull’elemento iconico: figure enormi fatte per attirare l’attenzione delle persone. Il Drago nasce da un’idea geniale. La domenica di Carnevale c’erano i carri in città ed era assolutamente vietato manifestare. Al DAMS a qualcuno venne l’idea di fare una manifestazione travestiti come in una festa di Carnevale. Come elemento figurativo si scelse il Drago, che è tipico della cultura cinese e molti di noi, me compreso, si dipinsero le facce da Indiani Metropolitani. Ci sono anch’io in quelle foto. In questo modo abbiamo fatto una manifestazione non autorizzata. La polizia è arrivata ma non è intervenuta. Poi il Drago è diventato un simbolo del Movimento. Eravamo molto creativi, ognuno metteva nel Movimento quello che sapeva fare e tutto confluiva nell’esteriorità del Movimento. Nel Movimento del ’77 bolognese esistono tutte le diverse discipline artistiche.
UZ Sei praticamente considerato il fotografo “ufficiale” del ’77 a Bologna e sei sempre coinvolto quando si parla di questo argomento: le tue fotografie sono diventate una chiave di volta della memoria.
ES Ero di sinistra, già con Radio Alice avevo iniziato a fare fotografie. Non ero un giornalista che andava a fare un servizio, appartenevo al Movimento. Allora non ci si poteva fidare dei fotografi esterni perché potevano usare le immagini contro di noi: c’erano arresti, si andava in carcere. Chi mi vedeva tutti i giorni, alle assemblee e a fotografare, aveva completa fiducia in me. Sapevano che non cercavo lo scoop, ma ero uno di loro. Nel 1976 era già uscito Alice è il diavolo, che forse è stato il primo libro del Movimento, e già lì c’erano mie fotografie. Questo mi permetteva di fotografare situazioni alle quali altri non sarebbero stati ammessi così da vicino.
UZ Tua moglie collaborava con te?
ES Anche Angela era nel Movimento. Eravamo quasi sempre insieme. Nelle manifestazioni io le passavo i rullini bollenti, quelli che non dovevano finire nelle mani della polizia. Era il mio deposito segreto.
UZ C’era un mercato per queste immagini?
ES Ho venduto qualcosa tramite Grazia Neri, ma non bastava per vivere. In tutte le mostre e le pubblicazioni del Movimento le mie fotografie comparivano gratuitamente. Nel 1977 ero uno studente, mi sono laureato agli inizi del 1978. Finiti gli studi, però, dovevo guadagnare ed è stata dura. Non solo non facevo cronaca, ma a Bologna ero considerato il fotografo del Movimento e quindi praticamente un appestato. Per fortuna i genitori di Angela ci hanno comprato casa e lei nel 1979, dopo essersi laureata in Lettere, ha trovato lavoro come impiegata amministrativa. Ci siamo sposati. Come fotografo guadagnavo pochissimo e praticamente Angela mi ha mantenuto per un sacco di tempo. Il periodo più duro della mia vita.
UZ Quando hai deciso di abbandonare il lavoro di fotografo?
ES Sono entrato in crisi in varie tappe. Nel 1979 Grazia Neri mi aveva proposto di darmi una lettera di presentazione per France Presse, la più grande agenzia europea, che stava a Parigi, ma io non avevo la possibilità economica di trasferirmi là. Avevo un corpo macchina, un 28mm e zero soldi. Mio padre non credeva nel lavoro di fotografo e si è rifiutato di aiutarmi finanziariamente. Il mio sogno di andare in giro a fotografare nei paesi dove si svolgevano conflitti militari o sociali era finito.
Altra tappa della crisi, il servizio sulla strage alla Stazione di Bologna. Fu un servizio sfortunato, perché scoprii tardi quello che era successo. Non avevo quegli agganci che permettono a chi fa cronaca di essere subito informati di quello che succede in città. Quando arrivai in stazione la fase del soccorso ai feriti e del recupero dei morti era passata e il servizio che mandai a Grazia Neri per Paris Match mi venne rifiutato per mancanza di morti e feriti. Allora era così, se c’erano dei morti si doveva vedere il morto ammazzato. Non è come oggi. Mentre fotografavo, poi, avevo la sensazione che noi fotografi fossimo considerati sciacalli, perché non davamo alcun aiuto pratico. Solo una ventina d’anni dopo è stata riconosciuta l’importanza documentaria delle immagini di tutti i fotografi lì presenti.
Poi agli inizi degli anni ’80 è iniziato il boom della moda italiana e quindi della fotografia di moda, e anch’io ho cominciato a fare foto di casting per le modelle. Ma per lavorare si doveva stare a Milano, vicino a certi ambienti, e mi sono trasferito là per qualche mese. Ma se a Bologna mi dicevano che si avvalevano solo di fotografi di Milano, a Milano mi dicevano che volevano fotografi di Parigi o di New York. Dopo sei mesi non avevo più niente e dal 1984 in poi ho passato un periodo tremendo dal punto di vista finanziario. Nel 1987 mi hanno offerto un posto di lavoro negli studi televisivi dell’Antoniano come ispettore di produzione. Mia moglie era incinta e ho deciso di accettare. Ero arrabbiatissimo perché non ero riuscito a fare il lavoro che desideravo. Ho buttato tutto, ma ho tenuto i negativi. Nessuno sapeva più che ero un fotografo.
Solo nel 2008 ho deciso di fare un sito dove ho pubblicato le mie fotografie ed è cambiato tutto. L’anno dopo mi hanno invitato a Torino per una mostra personale. L’anno successivo mi hanno chiesto una fotografia per la mostra ufficiale dei 150 anni dell’Unità d’Italia, iniziata a gennaio 2011 sempre a Torino.
Quell’anno mi sono iscritto a Facebook e ho iniziato a pubblicare le foto del ’77. È stato subito un happening. Tantissimi mi hanno mandato fotografie, racconti, testimonianze. Ho pensato che fosse un peccato lasciare tutto su Facebook, perché in poco tempo sarebbe sparito. Ho pensato di raccogliere il tutto e provare a realizzare una cosa considerata impossibile: sistematizzare il flusso magmatico di Facebook. È nato il libro I ragazzi del ’77. Una storia condivisa su Facebook. 544 pagine, 1272 fotografie e migliaia di pensieri. C’ero riuscito.
UZ Questo disoccultamento del tuo lavoro ti ha spinto a fare ancora fotografie?
ES Assolutamente no. Quello è stato proprio uno stacco di incazzatura. Non ho buttato la macchina fotografica perché fotografavo la famiglia. Fotografavo, ma per me. La rinuncia al sogno è stata forte, ma non sono di quelli che stanno a rimpiangere il passato. Quello che mi sto godendo adesso è questa riscoperta “post-mortem” da vivo.
UZ Vorrei chiederti qualcosa sui servizi che il MAMbo ha acquistato con il Premio PAC2021. Mi interessa in particolare il servizio sulla seconda Settimana, del 1978. Da dove deriva l’attenzione per l’attività della Galleria d’Arte Moderna, visto che in quell’anno hai fotografato anche la sezione dedicata a Fluxus alla mostra Metafisica del quotidiano?
ES La Galleria d’Arte Moderna era una grande novità, un’istituzione all’avanguardia.
In quegli anni ci si trovava in Piazza Verdi e lì si decideva dove andare più o meno tutti assieme. Un giorno qualcuno disse che alla Galleria d’Arte Moderna c’erano le performance e che il giorno prima c’era stato Demetrio Stratos. Così decidemmo di andare. Per me si trattava tra l’altro di un buon soggetto da fotografare per Grazia Neri.
In Galleria c’era anche la mostra di Fluxus. Io non ero interessato alle mostre, ma le opere che vedevo in quella mostra, con le scritte e il resto, mi sembravano tanto vicine a quello che si faceva nel ’77. Le ho fotografate pensando che, se quella era arte, era arte anche quella che avevamo fatto noi. Le scritte erano ugualmente demenziali, solo che da una parte erano considerate arte e dall’altra imbrattamento dei muri. Tra le mie foto più richieste c’è quella con la scritta, su un muro del DAMS occupato: “Decreto lo stato di felicità permanente”. Che è una scritta stile Fluxus.
Indice
Introduzione
Lorenzo Balbi Performare il museo. Esperienze recenti dentro e fuori il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Uliana Zanetti Archivi museali tra storia istituzionale e racconto storico-artistico
Rilevamenti d’archivio. Le Settimane Internazionali della Performance e gli anni ’60 e ’70 a Bologna e in Emilia Romagna
Pierluigi Molteni, Wladimiro Bendandi Esporre la performance. Note sull’allestimento di Rilevamenti d’archivio
La nuova sezione del MAMbo dedicata alla performance
Bologna anni ’70
Alessandra Troncone Gennaio 70 a Bologna: il video in mostra
Pasquali Fameli Tracce per una storia della performance nelle gallerie private bolognesi negli anni ’70
Caterina Molteni La materia della parola: Adriano Spatola curatore e performer alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna
Uliana Zanetti La prima Settimana Internazionale della Performance nei documenti del MAMbo
Lorenzo Mango La postavanguardia alla Seconda Settimana Internazionale della Performance
Alessandra Acocella Arrigo Lora Totino e le Settimane Internazionali della Performance di Bologna (1977-1981)
Francesco Spampinato No Bologna No New York: il network No Wave tra le due città 1977-1983
Sabrina Samorì La performance vestita tra anni ’70 e ’80
Roberto Grandi Il mito spezzato
Claudio Musso Il teatro degli scontri. Note sul paesaggio urbano a Bologna 1975-1984
Elvira Vannini Non siamo qui non siamo là, il nostro covo è tutta la città. La potenza creativa del movimento del ’77
Maria Antonietta Trasforini Luoghi del femminismo, sconfinamenti e azioni “performative”. Bologna anni ’70
Alessandra Pioselli La Madonna, un tubo e un bidone. Azioni in Piazza Maggiore. Anna Valeria Borsari e Greta Schodl
Francesca Rebecchi Franco Vaccari. Un precursore in viaggio nell’Emilia degli anni ’60 e ’70
Francesca Gallo Variazioni attorno al tableau vivant: appunti sulle performance di Luigi Ontani
Sara Codutti Fabio Mauri, Bologna 1938-1978: poesia, ideologia, azione
Laura Iamurri Gina Pane a Bologna, 1976-1978
I curatori delle Settimane Internazionali della Performance
Renato Barilli Le Settimane dopo il 1977
Ivo Bonacorsi Francesca Alinovi. Lo stato di grazia della performance
Lara De Lena, Caterina Sinigaglia Tutte le arti tendono alla performance: un approccio alla genesi del pensiero critico di Roberto Daolio
Franco Solmi Performance al museo
Marilena Pasquali Una settimana di gioiosa follia
Deanna Farneti Cera Sulla prima Settimana Internazionale della Performance
Uliana Zanetti Angela Tosarelli Tassinari
Franco Quadri Lettera a Renato Barilli Seconda Settimana Internazionale della Performance. Comunicato stampa
Intervista ad Anna Canepa
Leonetta Bentivoglio Una preistoria significativa
Oderso Rubini Follow the Waves. La Quarta Settimana Internazionale della Performance
Lorenzo Mango La Sesta Settimana Internazionale della Performance
Oltre le Settimane Internazionali della Performance
Conversazione con Sara De Giovanni e Daniele Del Pozzo Il Cassero. Performare il genere
Silvia Fanti/Xing Cronache
Nuove immagini per le raccolte del MAMbo. Gli autori delle opere acquistate grazie al PAC2021
Antonio Masotti
Mario Carbone
Silvia Lelli
Enrico Scuro
Emanuele Angiuli
Appendici
a cura di Barbara Secci Lista delle opere acquistate grazie al PAC2021 – Piano per l’Arte Contemporanea
Lorenza Cariello / translations by Elisabetta Zoni Synopsis
Il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna è tra le vincitrici del bando “PAC2021 – PIANO PER L’ARTE CONTEMPORANEA” promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura
Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura