Cortei, P38, slogan e creatività. Quei luoghi in Movimento
di Michele Smargiassi
la Repubblica Ed. Bologna
6 marzo 2007
Scatti a confronto trent’anni dopo il ’77, da via Zamboni a piazza di San Giovanni in Monte, in compagnia del fotografo che seguiva gli autonomi. “Il giorno che bruciai la foto di un compagno che sparava”. La decisione: “Distruggerla era il prezzo per continuare a fotografare da quella parte della barricata. A casa trovai i compagni, decisi: ‘dacci la foto’. Risposi soltanto: lasciate che la distrugga io stesso”
Ce l´aveva nel mirino. Centrato, perfettamente a fuoco. Non poteva mancarlo. Premette lo scatto. Lo prese in pieno. «Ero fiero di me, come professionista». Ma Enrico Scuro, il fotografo del Movimento del ‘77 bolognese, era anche un militante. E questo cambiava molte cose. Sapeva di avere catturato nel rullino un grande scoop fotografico, roba da prime pagine dei giornali nazionali, come la fotografia dell´autonomo col passamontagna e la pistola spianata negli scontri di Milano, qualche mese dopo. Anche a Bologna, nei giorni di fuoco dopo l´11 marzo, qualcuno in strada sparò. Era stata saccheggiata un´armeria. Quella foto di un giovane armato scattata in via Zamboni era la prova del “salto di qualità” della rivolta.
Che farne? «Cominciai a pensarci subito. Ma qualcuno mi tolse presto ogni dubbio. Tornato a casa, ci trovai già i compagni, tranquilli, decisi: ‘dacci la foto´. Risposi soltanto: lasciate che la distrugga io stesso. Accesi il fornello di cucina e guardai il rullino ancora non sviluppato sciogliersi come cera».
Rimpianto? «No: come fotografo ero soddisfatto di aver colto l´immagine. Come militante sapevo che poteva costare la galera a qualcuno, e la criminalizzazione a tutto il Movimento. Distruggerla era anche il prezzo per poter continuare a fotografare da quella parte della barricata, per non essere cacciato come un delatore, come accadde a tantissimi».
Enrico restò “fotografo di Movimento”, con mille dubbi. «Ci chiedevano solo fotografie da realismo socialista: poliziotti con la faccia cattiva, militanti in pose eroiche o simboliche. Non ci volevano poi tanto bene, i compagni. Sospettavano di noi fotografi, non ci lasciavano spazio per raccontare davvero. Molte fotografie, quelle con le facce, quelle più personali, private, le ho quasi rubate, e lo ho tirate fuori solo in questi giorni».
In via Zamboni, il sentiero degli autoblindo, oggi passano le biciclette. Il muro di fumo dell´immagine di trent´anni fa è dissolto nell´aria e nella memoria. Quella barriera di nebbia lacrimogena segnava il confine.
«Ogni sabato, per mesi, i cortei lo sfondavano, puntando verso la città ostile, la città della borghesia rossa, delle botteghe». Con la sua digitalina Enrico prende la mira con cura, per ricalcare esattamente la vecchia inquadratura in bianco e nero. Le bici lo sfiorano. «I poliziotti ci aspettavano dall´altra parte, sotto le Torri, e lì si fermavano al ritorno dei cortei, come se ci restituissero alla nostra riserva indiana». Più che un confine, un baratro, una faglia tellurica. Riparte da qui la nostra passeggiata ri-fotografica a cavallo di trent´anni nei luoghi del ‘77: e questa volta tocca ai luoghi dello scontro, non più quelli della socialità.
Sfondato il confine, oltre lo stretto budello porticato e l´imbuto di via Zamboni, ecco piazza Ravegnana: dove il corteo si disponeva in formazione. «Un´occhiata a chi teneva lo striscione d´apertura e capivi se sarebbe stato pacifico o violento». Sovversivo quanto si vuole, ma un corteo con lo sfondo delle Due Torri era sempre molto fotogenico. Ora la statua di San Petronio, rimessa da Guazzaloca in anni meno agitati, sembra benedire un luogo restituito non alla città, ma ai motori. Gli autobus si sfiorano.
Ci fu anche un bus, tra i protagonisti del ‘77 bolognese. Il «compagno autobus» di una delle più feroci poesie satiriche di Stefano Benni. Fu bruciato durante gli scontri (nella foto). Il sindacato ferrotramvieri lo rimorchiò in piazza Nettuno, lo espose come monito ai cittadini contro gli «untorelli», i «provocatori anticomunisti». Accanto al cadavere di un autobus si raccolsero firme «contro la violenza» che nessuno aveva pensato di raccogliere accanto al cadavere di uno studente. Per qualche giorno la carcassa restò lì, sotto le finestre del sindaco Zangheri, nera e accartocciata, quasi una scultura astratta di tubi contorti e plastiche sciolte.
«In fondo, e involontariamente, fu la sola risposta delle istituzioni all´altezza dei linguaggi del Movimento», osserva Enrico, «un´opera d´arte situazionista, un monumento Mao-dada».Le sue performance, l´ala creativa del Movimento le riservava invece per il palcoscenico di via Indipendenza.
Larga, lunga, scenografica. Il doppio portico era un´ideale fila di palchi di proscenio per i bolognesi comuni che, sbigottiti, impauriti, scrutavano le evoluzioni incomprensibili dei clown, dei draghi, dei mimi, delle maschere, la grande compagnia spontanea di teatro di strada del popolo dei «non garantiti». Anche via Indipendenza, come piazza Verdi, ha forse avuto il destino segnato da quel potente marchio: pedonalizzata a metà, praticabile a metà, mai davvero riconquistata dai passanti, è un altro dei luoghi irrisolti della città. Come se il tentativo di ridefinizione fatto allora fosse troppo scandaloso per essere accolto.
Torniamo sui nostri passi. C´è un ultimo scenario da rivisitare. La piazza della Repressione. La Cajenna del potere. La Bastiglia che rimase imprendibile. Piccola salita ciottolata: ecco San Giovanni in Monte. La Galera. «Fuori i compagni dal carcere», lo striscione campeggiava in tutti i cortei, e il carcere era questo. C´erano i martiri del Movimento, quelli presi dopo l´irruzione a Radio Alice, e dopo le inchieste del pm Catalanotti. Un giorno uscirono davvero, gli arrestati di “Katalanotti”: li aspettava una piccola folla euforica ma già rosa dal dubbio della vittoria di Pirro.
Anni dopo, gli studenti hanno fatto davvero irruzione nel vecchio carcere: ma come utenti disciplinati delle nuove aule dell´Università. Il luogo concentrazionario è adesso un luogo del sapere: bello spunto per una performance teatrale indiano-metropolitana che non può più esserci. Sotto il portico c´è una lapide. Parla di compagni liberati grazie all´ardimento dei «patrioti». Ma la data è 9 agosto 1944. Altra storia, altri resistenti, altri insorti: i partigiani comunisti, non i movimentisti desideranti. «Le targhe le mette chi vince», borbotta Enrico mentre si contorce cercando il punto di ripresa di trent´anni fa.
Che il Movimento del ‘77 bolognese abbia perso, qualunque cosa fosse, buona o cattiva, fertile o fallita, è difficile dubitarne. Ma chi ha vinto?