Passato e presente nelle celebri immagini di Scuro
di Michele Smargiassi
la Repubblica Ed. Bologna
27 febbraio 2007
Com’erano ieri e come sono oggi le strade, le piazze e le aule universitarie che furono teatro di un’epoca. Stesso fotografo, stesso posto, stessa inquadratura: una passeggiata lunga tre decenni nei luoghi del Movimento nelle immagini di Enrico Scuro
È una barbetta nera, una peluria sottile. Riempie i buchi dei proiettili come un´imbottitura. La vedi solo se ti avvicini allo spesso cristallo, e usi la mano per schermare il riflesso. Dev´essere stata proprio la protezione del vetro a creare il tiepido microclima ideale per la crescita della muffa che inghiotte le ferite di trent´anni fa, come la giungla messicana inghiottì i relitti della civiltà maya massacrata.
In via Mascarella, oggi come allora, passano massaie con le buste del negozio e studenti che si affrettano verso le facoltà. Pochi voltano lo sguardo incuriosito a questa bacheca muta per qualche frazione di secondo: si capisce che sono i forestieri.Ma desistono subito, non trovando spiegazione. La targa che ricorda, ma non spiega, che in questo luogo l´11 marzo del 1977 Francesco Lorusso fu «assassinato dalla ferocia armata di regime» è una decina di metri più in su, dopo una panineria e una galleria d´arte, di fianco al civico 37 (su ogni campanello tre o quattro cognomi: stanze sovraffollate di studenti, certe cose non cambiano mai).
Anche su questo marmo freso il tempo ha depositato la patina dell´indifferenza. La polvere di trent´anni non ha un colore diverso da quella di otto secoli che, sul muro opposto, copre la lapide dedicata al primo convento domenicano di Bologna. Sul muro qualche locandina strappata di dibattiti e spettacoli. Ma nessuna scritta. Nessun graffito, nessun saluto per Francesco che richiami l´attenzione.
Questo muro crivellato dove ogni anno si raccoglie una piccola (sempre più piccola) folla di amici e compagni, non è mai divenuto un sacrario, non è un luogo della memoria, non tramanda nulla. Forse scritte c´erano, e il tempo o il condominio le hanno cancellate. Sotto il cristallo, però, chissà come, i cerchi di gesso attorno ai fori dei proiettili risaltano ancora bianchi sull´intonaco rossastro. Sì leggono anche i numeri scritti dalla polizia scientifica: 11, 12, 13… Ma quanti colpi spararono quel giorno, alla cieca, in mezzo alla nebbia delle molotov e dei fumogeni? Non ha sempre giurato, il carabiniere Tramontani, di averne esplosi solo sei o sette?
E gli altri? «Blowin´ in the Wind, la risposta soffia nel vento…», borbotta Enrico. È in piedi in mezzo al portico, le mani giunte a sorreggere la macchinetta, nel nuovo gesto rabdomantico dei fotografi digitali. Sguardi interrogativi dei passanti: cosa c´è di bello da fotografare qui? Il tempo, c´è il tempo passato, il tempo perduto. Trent´anni fa Enrico Scuro era in piedi su questo stesso metro quadrato di portico. Cerca la stessa inquadratura di allora, la trova. Clic. «L´ho dovuta rifare tre volte, mi tremava la mano». Nel ´77? «No, oggi».
Enrico era il fotografo del movimento. Il “compagno fotografo”. Lo “sguardo da dentro”. L´unico autorizzato a infilarsi in qualsiasi assemblea, riunione, corteo, senza essere scambiato per un delatore. «Non stavo in nessun gruppo, ero un compagno cane-sciolto, come si diceva, e nessuno diffidava di me». Rifotografare una per una le foto più importanti del suo archivio, che è un autentico patrimonio storico, la faccia di un´era.
Stessi luoghi, stesse inquadrature. Dal bianco-nero al colore, un salto brusco che misura la distanza, il passo della storia, i segni del tempo sui luoghi simbolici di allora. Il gioco gli è piaciuto. Allora via, partiamo per una passeggiata lunga tre decenni, e partiamo da qui, naturalmente, dalla fine: dal tragico climax, dal minuto maledetto quando tutto cambiò. O forse nulla, che è peggio.
E subito cerchiamo l´inizio. Quando ogni futuro era ancora aperto. Aula III di Lettere, via Zamboni: qui era il parlamento. Gennaio ´77, qui nell´aula più grande della facoltà-madre iniziano le assemblee contro la riforma dell´università.
Più sala della Pallacorda, però, che Montecitorio.Apparenza di spontaneità, ma «chi conosceva le regole non scritte delle assemblee le portava dove voleva». Lassù sull´architrave era la celebre scritta “lavorare meno lavorare tutti”. Sotto qualche mano di pittura, la ritroveranno forse gli archeologi del futuro.
Dai sottobanchi di legno, invece, nessuno ha grattato via le scritte a biro, o incise col temperino: ma anche quelle sono finite sotto uno strato di scritte di altre rivolte dimenticate (la «Pantera»? Chi ricorda?), o di epigrammi annoiati e pasquinate distratte degli studenti degli anni del disimpegno. Immancabili “Silvia tvtb”, porno-anatomie disegnate col bianchetto, numeri di telefono dell´era pre-cellulare. Di odierno, solo un adesivo del collettivo Mao: «Vogliamo tutto, soprattutto un tetto»: le ambizioni non sono più quelle di una volta.
In via Guerrazzi, invece, non c´è bisogno di archeologi. Il Dams dell´esplosione creativa, la fucina della fantasia al potere, non c´è più, nelle vecchie aule ora c´è la biblioteca di Geografia. Ma la sorpresa attende dietro una porta: Lamastein è ancora lì, goffo e truce, dove trent´anni fa Enrico lo fotografò che quasi si confondeva nell´aula di musica interamente tatuata dai murales, pianoforte compreso.
Hanno risparmiato solo lui, dentro una cornice di stucco, forse perché, dice una bibliotecaria, «a me sembra la mano di Andrea Pazienza» e magari ha ragione. Lama-Frankenstein, pitturato a tempera nervosa: ma per vederlo tutto intero bisogna spostare a spallate un pesante schedario di metallo. «Lì ce n´ è un altro, potrebbe essere Mattotti». Potrebbe essere tutto, per le poche figure a pastello che s´intravedono dietro gli scaffali. L´Accademia che ha ripreso il sopravvento sulla libertà creativa, se proprio vogliamo metaforizzare.
Ma dove le parole diventavano letteralmente pietre, non era nel chiuso delle aule, ma nel catino di piazza Verdi. Agorà e suburra, foro e arena; ma anche fortezza, bunker, piazza d´armi.
Nella notte della rabbia, ogni presenza estranea fu distrutta. Ne fece le spese il Cantunzèin, ristorante à la page. Ora c´è una copisteria: resta un fantasma, l´incongruo tettuccio a tegole con l´edera rampicante. Cosa sia piazza Verdi oggi, le cronache dei giornali lo raccontano. Le cronache nere. «A Parigi questa piazza sarebbe il foro della cultura», dice Enrico. La piazza della Sorbona è sopravvissuta così alla fine delle rivolte. Piazza Verdi no.
Sul muro di fianco alle Scuderie, allora mensa studentesca, fremono al vento le offerte di posti-letto. Euro 250 in doppia, 320 e anche 370 in singola. Sotto il portico del Comunale comincia già lo stanco bivacco punkabbestia, aprono le saracinesche i pusher. C´era una rivolta in piazza Verdi, ma adesso non c´è più.